L’ingresso nel mondo del lavoro non fu, di certo, più entusiasmante della mia tanto brillante, quanto conflittuale, carriera scolastica.
Innanzitutto, qualcuno (il più saputello possibilmente!) potrebbe obiettare che il ricorso al passato remoto del verbo “essere” da parte mia non si addica alla descrizione di un lasso di tempo che, presumibilmente, dovrebbe andare dallo scorso Marzo ad oggi.
Costui avrebbe sicuramente ragione se la mia carriera professionale, come nella maggioranza dei casi, fosse stata il coronamento dei miei studi.
Ma, un po’ a causa delle già ampiamente discusse arcane influenze della mia amica Retta ed, un po’, a causa delle mie indiscutibili tendenze al masochismo (ogni tanto non nuoce un po’ di autoanalisi), nel mio caso, si potrebbe parlare di “esperimento precoce” e, se volessimo applicare la legge, “sfruttamento minorile”.
In piena esplosione ormonale, infatti, le mie giornate (come quelle della maggior parte degli adolescenti) erano scandite da una imperante “paranoia”: per la lettura dei Promessi Sposi; per l’ottusità di certi adulti; per le ore di educazione fisica che non potevamo fare per mancanza di quella “paranoia” della palestra e, di conseguenza, “paranoia” per decidere se fosse più opportuna una “okkupazione”, piuttosto che una gestione autonoma didattica; “paranoia” perché mia madre non mi dava il permesso di uscire; “paranoia” per tutte le cose brutte dell’Universo e, infine, “paranoia” per tutte le suddette “paranoie” e per tutte quelle che, eventualmente, elencherò in un saggio intitolato: “Ars Paranoiae nella mente contorta di un quindicenne problematico”. Nello stesso periodo arrivò un giorno in cui - riflettendo sul fatto che se avessi guadagnato un po’ di soldini, avrei avuto la possibilità di fuggire da casa senza chiedere il permesso e, soprattutto, un supporto economico a mia madre - decisi che avrei potuto cominciare a sperimentare il magico mondo del lavoro.
Inutile precisare che, consapevole della mia biologicamente giovane età (mentalmente mi sentivo già sulla soglia dei cinquanta), non pensavo certamente di poter diventare Dirigente Generale delle Forze Armate o, peggio ancora, addetto alla contabilità di una bottega di orto-frutta.
“Anche i più grandi hanno cominciato dal basso” ovvero, “Chi vuole arrivare in cima deve cominciare dal fondo”.
A questo punto, vorrei chiedere di concentrare la vostra attenzione su questi due geniali assunti, perché è proprio a partire dall’impatto che certe parole hanno su di me che ruota il perno di tutta la mia esistenza…fino a ieri, quantomeno!
Le parole, infatti, hanno avuto per me, da sempre, un valore importantissimo che, tradotto in altri termini, vuol dire che non ho mai pensato che per alcune persone potessero essere, semplicemente, un modo alternativo di prender fiato.
Negli anni, grazie ad alcune esperienze non troppo mistiche, ho poi avuto modo di constatare che quella mia visione della realtà andava forse rivisitata, rielaborata e ridimensionata.
Una delle prime volte in cui la Verità fece capolino nella mia esistenza fu quando fui vittima di un pacco dalle dimensioni stratosferiche: mi era stato promesso un viaggio a Parigi. Le parole con le quali era stata fatta la promessa non lasciavano alcuno spazio all’equivoco: “Prepara le valigie perché tale giorno a tale ora partiamo, tu ed io, per Parigi!”. Le mie parole sulla lista delle cose da aggiungere al bagaglio, altrettanto chiare. Le parole con le quali, alle nove del mattino (partenza prevista per le ore sei), mi si comunicò che potevo stilare una nuova lista per le cose che dal bagaglio potevano partire con destinazione cassetto, furono anch’esse chiare e… cocenti!
Dulcis in fundo, le parole che colui il quale, per comodità storiografica, chiamerò “L’accollatore di pacchi clamorosi” pronunciò ridendo, data l’ilarità di tutta la faccenda, circa diciannove anni dopo, mi fecero esattamente comprendere che le parole, a volte, sono solo parole e per questo, purtroppo, non bisogna affidare loro il destino della nostra esistenza.
Non sia L’Accollatore di pacchi clamorosi il capro espiatorio! Da allora ad oggi, sono state veramente poche le persone che hanno mostrato di dare alle parole lo stesso senso profondo che per natura ho sempre attribuito loro. Poiché alle suddivisioni drastiche che vedrebbero i “buoni” tutti da una parte ed i “cattivi” dall’altra non ho mai creduto, diciamo pure che, preso atto delle differenze, mi sono organizzata meglio nella gestione della mia esistenza.
Tuttavia, per tornare al mio debutto nel mondo del lavoro, a frasi quali quelle sopraccitate ancora ci credevo e, prendendole alla lettera cercai un “fondo” che fosse abbastanza “fondo”. Così “fondo” che mi ci volle un’intera estate prima di raggiungere la superficie.
Alla tenera età di quindici anni, dunque, essendo la mia natura tendente al masochismo, non optai per il volantinaggio o per il “babysitteraggio”, ma per qualcosa di veramente formativo, duro. Qualcosa che mi avrebbe insegnato molto. No. Non andai né al cantiere navale né al mercato ortofrutticolo. Decisi, più semplicemente, di vendere i giornali nella spiaggia di una nota località balneare.
Voi penserete che fosse stato creato una sorta di gazebo destinato alla vendita. No. Vi sbagliate. Diciamo che il gazebo ero io e che, a differenza di tutti gli altri gazebo del mondo, ero veramente una “struttura mobile”.
Il lavoro, infatti, prevedeva che alle nove del mattino mi recassi presso una delle edicole del paese, caricassi sulle mie spalle un borsone dal peso quattro volte superiore al mio e, con un bellissimo sorriso stampato in faccia, mi recassi in spiaggia per vendere il mio prodotto.
Inutile dire che non dovevo stare ferma sotto un ombrellone, ma camminare, camminare, camminare e camminare. Camminando, camminando, imparai tantissime cose.
Il lavoro in questione, infatti, mi portò a contatto con tanta gente e quando la vita ci offre una siffatta opportunità, dinanzi a noi si aprono due strade: imparare a conoscere gli altri e quindi noi stessi; continuare a fare i solitari rimanendo sul nostro piccolo piedistallo convinti che al momento della nascita siamo stati dotati di tutti i pregi del creato e che, di conseguenza, non abbiamo bisogno d’interrogarci sulle questioni più banali che riguardano l’essere umano in quanto tale.
In realtà, come ogni volta che scrivo, ci sarebbe una terza opzione: far finta di essere solitari e, una volta tornati a casa, farsi due milioni di pippe mentali alla ricerca del nostro vero essere.
Ho sempre nutrito una certa passione per il mondo dell’editoria ma, devo dirlo, fu la suddetta esperienza a farmi capire le ragioni intime di tanto amore.
Camminavo lungo la spiaggia con addosso un costume, una tuta luccicante di sudore e un bellissimo paia di scarpe da ginnastica che però non si vedevano a causa del fatto che il peso del borsone mi costringeva ad un’immersione nella sabbia fino alle ginocchia; in altre parole, chi mi guardava vedeva solo un busto trascinarsi sulla rena. Imparai alcune delle differenze sostanziali tra l’essere uomo, l’essere donna e l’essere umano.
In un primo momento non fu necessario interagire con gli altri, infatti mi furono sufficienti alcuni dei nomi delle riviste che l’azienda proponeva.
Alle donne erano rivolti titoli del tipo: “Donna”, “Donna in”, “Vera donna”, “Intimità”, “Io e mio figlio”, “Io che figli no ne ho”, “Io, mio figlio e mia suocera”, “Il figlio di mia suocera”, “Orrore! Mio marito conosce mia suocera!”.
Agli uomini, invece: “Motociclismo”, “Modellismo”, “Fai da te…(almeno fallo credere!)”, “Soldatini e pupazzini: ecco i veri eroi” e, dulcis in fundo: “Poltrona: Oh tu che sei il mio vero amor!”, sottotitolo: “L’arte del non pensare!”.
La cosa veramente singolare era data dalla differenza sostanziale nella modalità di offerta-risposta che si azionava a seconda che l’acquirente appartenesse al primo gruppo od al secondo.
Se a chiamarmi era un uomo la durata del tutto non superava, generalmente, i cinque minuti: “Hai questa rivista?”, “Sì”, “Quant’è?”, “Ok. Me la dai?, “No, non preoccuparti. Tienilo pure il resto!”.
Se, invece, a chiamarmi era una donna il tutto cominciava ad assumere i tratti di una scadente fiction che cominciava a popolarsi di personaggi, aneddoti, dubbi e perplessità, richieste di consigli e profonde riflessioni sull’umanità tutta.
Prenderò in considerazione solo le vendite che andarono a buon fine: “Hai Intimità?”, “No. Però posso darle “Profondità”, “Ma a me piace Intimità”, “Signora, è più o meno la stessa cosa”, “Sì lo so (bugia clamorosa!). No, perché mia cognata, (bisbigliato) odiosa ma non ti sto a raccontare cosa ha avuto il coraggio di comprarmi a Natale, mi ha detto che su Intimità questa settimana usciva l’inserto sulla cucina tailandese. Lei è brava (con l’arcata sopraciliare inarcata e la manina roteante nell’aria), cucina sempre cose nuove… però non invita mai nessuno a casa sua perché altrimenti si sporca, e compra sempre Intimità perché le piace la rubrica di astrologia, perché quant’è cretina solo lei ci può credere a queste cose. Anche mia suocera la legge, seee perché pare che se la legge vero. A lei, però, piacciono i mini romanzi, quelli che si staccano, ah se uno potesse tornare indietro, quante cose non farebbe! “. “No. Comunque Signora le posso dare Profondità”. “Peccato! A me interessava Intimità”.
A questo punto, il mio cervello si spegneva e rinunciava a qualsiasi possibilità d’interagire realmente con quella donna. A volte mi convinsi del fatto che se avessi venduto sedute di psicologia, avrei fatto molti più soldi.
“Senti, vabbè, dammi Profondità. Quant’è?”, “Miiiiiiii, è caro! Ma non c’è uno sconticino per la simpatia?”, (ciò che avrei voluto dire e non ho mai osato fare) “A trovarlo quello simpatico!”, (ciò che dicevo) “No. Mi spiace. Se dipendesse da me, a lei, lo darei pure gratis. Ma le direttive sono chiare!”.
“Ludovico, che dici, lo prendo?”, “Ancora tempo ci perdi? Se ti piace!”, “Ludovico, me li prendi i soldi?...dal tuo borsello”, “Non li hai cambiati?”, “Ma scusa, non è quattromilanovecento lire?”, “Sì, appunto. Vabbè, vedi se hanno da cambiare cinquemila lire al bar del paese!”.
In spiaggia, grazie anche a quegli arditi e simpaticissimi tanga che hanno l’oneroso compito di reggere due macro budini ondeggianti ed ogni essere umano è quasi spogliato di ogni elemento di decoro, si ha una delle poche opportunità di studiare tutte le manie che rappresentano forse la vera differenza tra noi e gli animali.
Al grido di “Saaaaaaaaaaaaanti”, che non sta per “Santi” ma per un “senti” pronunciato da un palermitano, ero solita dirigermi verso un potenziale acquirente con le stigmate sulla spalla e un sorriso che celava in realtà una smorfia di sofferenza atroce. Non appena arrivavo sotto l’ombrellone e, ovviamente, dopo aver spiccicato dalla pelle il manico del borsone, aveva inizio una conversazione che, debbo dire, nei mesi non cambiò di molto:
“Che c’hai?” A quel punto il mio cervello partiva in automatico e, mentre intavolava una conversazione sullo squallore che spesso percepiva attorno a sé, la mia bocca, in simultanea, cominciava a fare l’elenco delle riviste. Una delle prime cose che mi colpì profondamente - escludendo per un momento le piscine gonfiabili adibite a “mantienifrescoilmellone” o bagnanti seduti che, dato il peso, apparentemente sembravano sospesi in aria dato che della “sdraietta” sotterrata era possibile scorgere solo l’appoggia testa - fu che una delle cose che maggiormente convinceva l’acquirente a fare quell’affarone era la presenza in alcune riviste di quei famosi “campioncini”, che non servono a nulla e ti fanno sentire assolutamente furbo. Tutti andavano alla ricerca del campioncino e poco importava se la signora al settimo mese di gravidanza decideva di comprare una rivista tipo “Trattori d’Italia”; l’unica cosa veramente importante era quel flaconcino contenente la metà del prodotto iniziale (a causa del calore l’80% del liquido era evaporato). Addirittura, a volte ebbi l’impressione che se dentro il flaconcino ci fosse stato dell’acido muriatico, la gente avrebbe comunque fatto follie per riceverlo.
Tuttavia, vi erano dei giorni in cui la titolare dell’edicola, non avendo trovato nel magazzino altri flaconcini risalenti al secolo passato, si limitava a darmi una tonnellata di carta stampata che, nel minor tempo possibile (più o meno queste erano le sue parole), dovevo piazzare in spiaggia. In queste giornate, ovviamente, la situazione si faceva più complessa, perché sarei stata costretta a ricorrere al solo uso della dialettica pur di convincere l’acquirente che trovarmi sulla spiaggia e, addirittura, trovare un interessantissima rivista sul corteggiamento dei coleotteri in calore fosse un’occasione da non lasciarsi scappare.
Le scene più terribili, comunque, si verificavano quando a chiamarmi non era un acquirente singolo, ma un intero clan. Non so se avete presente uno di quei tanti accampamenti che cominciano ad essere edificati il sabato sera per poi, l’indomani mattina, trasformarsi in veri e propri agglomerati da fare invidia persino alle favelas.
Durante i caldi ed appiccicosi mesi estivi furono proprio quelli a diventare il mio incubo: mi trascinavo sulla spiaggia, spesso vittima di miraggi inconfessabili, quando, all’improvviso, scorgevo in lontananza un braccio sventolante dalla cima di una collinetta.
Man mano che mi avvicinavo a quel punto lontano, la collinetta cominciava ad assumere i tratti di una “panza”, a stento trattenuta da un costume modello intero, con coppe imbottite e sofferenti sotto la spinta di un seno che definire “prosperoso” sarebbe un eufemismo.
Senza che avessi il tempo di rendermi conto di quanto stava accadendo, mi ritrovavo seduta sulla sabbia a contrattare ancor prima di proporre o addirittura vendere. Il clan, generalmente composto da una ventina di individui eterogenei per sesso, età, ma omogenei per ciò che riguarda concetti quali le dimensioni (i neonati arrivano a pesare duecento chili) ed umorismo, si coalizzava contro di me con il chiaro obiettivo di rincoglionirmi ulteriormente (come se i chilometri percorsi e i raggi ultravioletti non fossero sufficienti) per poi, alla fine, costringermi non solo a regalare tutti gli “omaggi” a disposizione, ma quasi pagarli pur di andare via.
In questi gruppi, solitamente, s’incontravano le seguenti figure: un comico (di quelli che raccontano duemila barzellette al secondo), una spalla (ride ancor prima degli altri e, nella peggiore delle ipotesi, gli dà nuovi input per nuove esilaranti gag); un nonno/a rincoglionito abbandonato sotto l’ombrellone; una coppia di neo fidanzati che, approfittando della distrazione della comitiva, si scambia effusioni degne da film porno; duemila bambini che ridono e urlano quando gli adulti lo fanno pur non avendo capito nulla di quanto stia accadendo; una ragazzina obbligata ad andare in spiaggia nonostante l’arrivo improvviso del menarca e, quindi, costretta ad indossare un pantaloncino che lascia intendere al resto del mondo che il bagno per certo non potrà farlo e, infine, un gruppo di donnone biondissime nonostante la ricrescita che si passano quasi in un delirio orgiastico la mercanzia.
Sotto il sole cocente e nell’attesa del verdetto finale (nella maggior parte dei casi, dopo avermi fatto parlare per due ore, non acquistavano nulla) l’unica cosa che mi rimaneva da fare (oltre a proteggermi dalle palline di sabbia che i bambini avevano simpaticamente deciso di lanciarmi) era guardarmi attorno, studiare la mimica, il vocabolario e l’arte dell’arrangiarsi che caratterizzavano l’intero gruppo.
Tutto questo delirio per guadagnare, alla fine, qualcosa come lo 0,1% sul totale delle riviste vendute, un’abbronzatura da brivido considerata quell’unica fascia bianca che, partendo dalla spalla, mi attraversava il busto, rendendomi simile alla neo proclamata reginetta delle sfigate e, dulcis in fundo, un eritema di dimensioni galattiche conficcato al centro del petto. Fedelissimo, da allora, mi fa visita ogni estate. “Prendi l’arte e mettila da parte”.
Per fortuna, l’estate non durò per sempre e così verso la fine del periodo di lavoro feci un incontro rivelatore. Una signora, interessatissima alle musicassette in omaggio con una delle riviste, mi chiese quali fossero i titoli. Dopo che li lessi uno ad uno, mi disse: “Ma, sai leggere pure in Inglese?” Sebbene l’istinto fosse stato quello di chiederle “pure” rispetto a cos’altro: strisciare agonizzante sulla sabbia? Trasportare con stoicismo un borsone dal peso indefinito? Portare con eleganza il mio eritema?; mi limitai a risponderle di si.
“E’ un peccato che una persona Brillante come te sia costretta a fare un lavoro da schiavi. Tuttavia, ricordati che, avendo cominciato dal fondo e con le qualità che hai, nella vita ne farai di strada”…”Mi dispiace. Non riesco a comprare nulla. Mi dà troppa rabbia!”.
Ringraziai gentilmente la signora e ponendomi un miliardo di domande ritornai in edicola.
In lontananza scorsi un gabbiano (scoprii più tardi essere parente del più famoso Livingston) che ridendo come un pazzo, mi disse: “Ma chi cazzo te l’ha fatto fare!”