Antropoturistica
Dopo aver raccontato della parentesi “black-out”, vi chiederei di fare un passo indietro e ritornare a quello che si potrebbe definire il mio battesimo nel turismo.
La storia che sto per raccontare potrebbe avere come sottotitolo “A buon rendere: l’arte del volontariato”.
Tuttavia, trattavasi di un volontariato consenziente giacché rappresentava quel periodo di stage necessario per ottenere l’autorizzazione ad entrare ufficialmente tra gli operatori del settore turistico.
Quando arrivai in agenzia non fui accolta con grande entusiasmo. Chissà per quale motivo quando arriva uno nuovo, in qualsiasi posto di lavoro, ci si sente obbligati a farlo sentire di troppo.
Questa situazione non durò a lungo perché la mia volontà d’imparare e lavorare furono così manifeste da spingere i miei datori ad affidarmi compiti sempre più importanti e, soprattutto, sempre più numerosi.
Era un periodo di transizione per il mondo delle agenzie turistiche: non tutti possedevano la stampante per i biglietti aerei elettronici. La mia sicuramente non l’aveva.
Detto questo, potete immaginare che uno dei primi compiti fu quello di amanuense. Compilai centinaia di biglietti aerei mandando la gente in giro per il mondo.
In tutta onestà, ciò non mi dispiaceva. Scrivevo e il mio egocentrismo mi portava a considerare quei coupons di alta manifattura una manifestazione diretta della mia presenza. La mia grafia in giro per il mondo: niente male come inizio.
Poco alla volta, accadde che uno dei soci (quello che mi prese maggiormente a cuore) cominciò a spiegarmi come muovermi all’interno del magico mondo delle prenotazioni aeree. Ogni agenzia ricorre ad un programma prestabilito.
In un primo momento si ha la sensazione di vagare nel vuoto. A me sembrava di camminare nuda in un deserto battuto dalla tempesta di sabbia: ogni qualvolta cercavo di tenere gli occhi aperti, era una tragedia.
“Cheingqazetasleshzetazeta” rappresentava la chiavetta d’accensione del motore. A partire da quell’input, poi, ci si sbizzarriva con una sequela di codici che in breve tempo portavano all’emissione di un biglietto aereo.
Sembrava follia. In realtà, in brevissimo tempo si finisce con l’imparare tutti quei codici a memoria. Ciò implica un’inconscia trasformazione nel tuo modo di leggere la vita. Trattandosi di me, la cosa fu un po’ più complessa.
In breve tempo ne memorizzai una quantità sufficiente da provocare una certa dipendenza. Il vero problema, infatti, fu che non riuscii più a vivere senza loro. Li ripetevo di continuo: mentalmente, verbalmente. Cercavo di applicare quelle formulette magiche su tutta la mia vita quotidiana. Quando qualcuno mi raccontava qualcosa, avevo serie difficoltà a mantenere il filo del discorso. Il mio cervello, infatti, in totale autonomia giocava a fare il traduttore simultaneo.
“Ciao, come stai?” veniva interpretato dal mio cervello, più o meno, in questo modo:
“?Ccccccsleshslehcmslesstaoie”. A questo punto, potete immaginare che le mie risposte si limitavano a: “Bene, bene!” (“!BnsleshBn”).
Offrire la conoscenza di tutti quei codici a una persona abituata a trasformare in fumetto ogni racconto letto o ascoltato, può rivelarsi altamente pericoloso. Se quella persona, inoltre, ha la tendenza a considerare ogni lettera, o segno, dotato di vita propria, è delirio.
Non so quando sia avvenuto questo cambiamento in me. E’ probabile che ciò risalga a un incontro con un U.F.O. del quale, tuttavia, non ricordo nulla se non il nome. Alla stessa data, probabilmente, risale il primo incontro con i folletti della mia fantasia. Non erano funghetti. Ho detto folletti! Malpensanti.
La conoscenza dei codici si traduceva in libertà di movimento e gestione autonoma dei clienti. Quando non c’era nessuno, mi sbizzarrivo a simulare una serie infinita di prenotazioni. Credo di essere l’unica di tutto il creato ad aver compiuto il giro del mondo in otto ore.
Mi divertiva da morire associare al codice “pmo” (aeroporto Falcone-Borsellino) quello di “jfk” (New York), “mpx” (Malpensa). Ciò mi dava la sensazione di essere veramente libera. Potevo viaggiare rimanendo comodamente seduta sulla mia sediolina a rotelle.
Tutto ciò, ovviamente, poteva avvenire in assenza di clienti. Ma, quando l’agenzia si popolava di potenziali viaggiatori e gli anziani erano già occupati, toccava a me l’onore di assecondare le loro piccole manie da giovani esploratori.
L’ultimo termine, in realtà, si addiceva a ben pochi clienti. A onor del vero, infatti, è possibile tracciare una sorta di profilo psicologico del viaggiatore non prima però di averlo inserito in una delle tre categorie disponibili.
In base alla mia esperienza, sia in veste di osservatore che di promotore, vi sono tre tipi di clienti che si recano in un’agenzia di viaggi:
1. Futuri sposi
2. Clienti affezionati. A loro volta si distinguono in due sottocategorie: viaggiatori per lavoro e viaggiatori stagionali
3. I richiedenti di preventivi per luoghi esotici: non partiranno mai
A questi tre tipi, in realtà, potrebbe aggiungersi una quarta categoria: i viaggiatori con secondi fini.
A quest’ultimo gruppo appartengono quelle persone che si recano presso un’agenzia di viaggi, fingendo di dover organizzare una mega vacanza di gruppo in compagnia di altre venti persone. Dopo averti costretto a cercare le migliori offerte, ti invitano per un’uscita a due che non coinvolge il tuo attuale fidanzato.
Per quanto risultino poco affidabili, in realtà, dopo tre anni di silenzio, ti si presentano con un’inaspettata proposta di matrimonio. Nel mio caso, accettai volentieri.
Ritornando alle tre categorie standard, va detto che i primi t’infondono un’infinita tenerezza. Lui è innamorato e non ancora vittima del fascino sensuale del televisore a schermo gigante che riceverà a breve. Inserito il gioco nella mega lista nozze al negozio di elettrodomestici, basterà attendere il primo gruppo di zii che partecipando con una quota, segnerà l’inizio della fine.
Lei è profondamente innamorata e le si può leggere negli occhi l’eccitazione nel sapere che, a breve, verrà inserita ufficialmente nella categoria nuore.
Il che l’autorizzerà a parlare male della suocera, lamentarsi per le pulizie da fare, rompere le palle per il disordine del marito e, soprattutto, cominciare a sentire i primi sintomi di una gravidanza per il solo fatto di averla programmata.
Lui e lei sono felici perché non ancora caduti nella trappola di quel luogo comune che vede nel matrimonio la fine di ogni speranza e l’emblema del tuo più grande fallimento.
Lavorare per una giovane coppia di futuri sposi non è così difficile: basta dare loro un pizzico di esotismo, una buona dose di romanticismo, uno sconto “luna di miele” e un set da viaggio quale gentile omaggio per l’ottima scelta.
L’ultima categoria, invece, non gode di grande simpatia. Quando a distanza di una settimana ti si ripresenta lo stesso potenziale cliente con una nuova destinazione, la prima reazione è quella di guardarti intorno nella speranza che i tuoi colleghi siano liberi.
Trascorrere un’ora in compagnia del soggetto in questione, infatti, equivale a sprecare il fiato e l’energia. Volendo essere ottimisti, invece, quel lasso di tempo si potrebbe considerare una sorta di ripasso delle proprie conoscenze geografiche. Sta di fatto che tutti vorrebbero evitarlo.
La seconda categoria, infine, è di gran lunga la più interessante. Nella maggior parte dei casi, la caratteristica principale sarà l’antipatia. A questa, per alcuni soggetti che più avanti si analizzeranno, può aggiungersi una buona dose di arroganza.
Tra le due sottocategorie, quella dei “vacanzieri stagionali” è la meno devastante.
La coppia, talvolta accompagnata da prole, ha quasi sempre le idee molto chiare. Mettiamo il caso che l’anno precedente siano stati in un villaggio di loro gradimento. La richiesta, quasi sicuramente, si baserà sul desiderio di trovare un villaggio simile da un’altra parte.
Sebbene il desiderio sia quello di trovare delle “camere simili”, dei “servizi simili”, una squadra di animatori “simili” e, soprattutto, delle “tariffe simili”, cadranno presto nella tentazione di abbandonarsi ad una esperienza nuova.
Si tratterà solo di tentazione. I ritorni puntuali ai ricordi dell’estate precedente, alla bellezza della piscina, alla cortesia del personale ed alla vicinanza con la spiaggia attrezzata, infatti, non lasceranno alcuno spazio al dubbio. Vogliono andare nel clone del villaggio già conosciuto.
A tal proposito, si potrebbe obiettare che tanto vale andare sul sicuro. Ma, non si può. Il vacanziere stagionale, infatti, ha il terribile bisogno di mostrare le foto della propria vacanza. Potrà mai organizzare una cena con gli amici e riproporgli le stesse immagini dello scorso settembre?
No. Da escludere assolutamente. E’ importante che si veda che la palma nana dell’anno prima, fotografata davanti l’ingresso della ricezione, sia stata sostituita da una pianta di magnolie.
E’ fondamentale che il bordo della piscina presenti dei gradini, piuttosto che la scaletta alla quale, l’anno precedente, si erano fatte abbarbicare le donnine di casa per immortalare l’eleganza e la spontaneità con la quale, munite di cuffietta azzurra, si accingevano ad uscire da quella meraviglia.
Insomma, è importante che il clone sia vestito di nuovo.
La crisi del turismo, mi pare, sia riconducibile non tanto all’insorgere di una dilagante crisi economica; quanto al diffondersi delle nuove tecnologie. Grazie all’uso delle macchine digitali associate al photo shop ad esempio, si possono apportare tutte le modifiche necessarie affinché le foto dell’anno precedente risultino assolutamente nuove. Si risparmiano un bel po’ di soldini e le rughe non si vedranno mai.
Dulcis in fundo, non ci resta che spendere due paroline sulla sottocategoria dei
viaggiatori d’affari. Salvo rare eccezioni, si tratta di individui appartenenti, per altro, alla categoria ampiamente discussa nel capitolo precedente, gli “indispensabili”.
Costoro rendono trionfale finanche il loro ingresso. Con lo sguardo fiero, vestiti di tutto punto e nemmeno l’accenno di un sorriso, si dirigono direttamente verso il proprietario dell’agenzia. Capita alle volte che dimentichino di salutare, probabilmente perché in attesa dell’inchino di tutti i sudditi.
Seduti sulla loro poltroncina, nella loro mente considerata una sorta di trono da viaggio, assumono una posizione standard. All’interlocutore, infatti, offriranno il fianco (manco fosse un paggetto), e con il gomito appoggiato sulla scrivania attenderanno che il ministro per gli affari esteri chiederà loro come stanno.
I loro sorrisi, simili a tic, avranno la durata di un nano secondo. Al contrario, se sono loro ad abbozzare l’aborto di una battuta, scrosciante sarà la risata di tutti i dipendenti.
Nel mio caso, tutti tranne me.
Non perché io fossi più intelligente degli altri o, più semplicemente, perché non avvezza a certi comportamenti sociali, ma perché troppo presa dall’osservazione del comportamento dell’animale uomo dinanzi a simili situazioni.
Il mio cervello, infatti, si sbizzarriva in una sorta di crono storia: “Ecco che il maschio si avvicina al resto del branco facendo sfoggio di tutta la sua eleganza. Gli elementi dominanti della specie, difficilmente, soccombono alle regole della buona educazione … bla bla bla”.
Antipatia infinita.
Un paio di volte, ciò mi capita spesso anche in altri contesti, la mia mente si sbizzarrì in turpiloqui inconfessabili. M’immaginavo mentre, alzatami improvvisamente dalla mia postazione, cominciavo ad elencare le regole delle buone maniere.
A quelli estremamente antipatici, inoltre, cominciavo a fare l’elenco di tutti i loro difetti. Niente di filosofico o particolarmente profondo. “Ma lo sa che la sua cravatta fa veramente schifo?”
“Le hanno mai detto che il profumo che usa è simile al prodotto che mia madre utilizza per la disincrostazione dei cessi?”, “Può scrollarsi la forfora dalle spalle, per favore? I miei occhi sono particolarmente sensibili dinanzi a simili obbrobri”
Inutile dire che tutte queste geniali battute rimasero frutto della mia fantasia. I miei folletti, tuttavia, avendo il potere di leggere nella mia mente, applaudivano, e con le gambette incrociate, si scompisciavano dalle risate. I più incontinenti, un paio di volte, bagnarono la mia scrivania.
Ricordo con particolare affetto due persone appartenenti alla suddetta specie: un professore universitario e un dirigente della regione.
Il primo era odioso perché, grazie alla sua elio-presunzione, sembrava fluttuare nell’aria come un palloncino sgonfio; il secondo perché, vittima del suo stesso fascino, pensava che ad ogni suo complimento ci si dovesse liquefare come la panna delle bustine.
Il professore pensava che la prenotazione di un biglietto aereo richiedesse una postura da esame: sguardo fisso sullo statino, frasi dette con tono interrogatorio, labbra serrate e vocali mozzate: “M dca qual’ il przzo più convenient”. Sì, e magari già che ci siamo ti parlo pure della tesi, antitesi e sintesi di Kant!
Il regionale, dal conto suo, pensava che il suo ingresso in agenzia dovesse essere simile alla passerella della notte degli Oscar. Seguito da un paio di portaborse, indossando un impeccabile abito Canali, e reggendo la sua quarantottore, si avvicinava alla scrivania prima di pronunciare un sensualissimo “saaaaaaaalve”.
Non si avvicinò mai alla mia postazione. Di contro, un paio di volte, si lasciò andare ad apprezzamenti sulla mia presenza parlando direttamente con il titolare il quale, a sua volta, aveva appena finito di dire alla moglie che “la nuova arrivata era un cesso clamoroso”, e che “solo un viaggio a Lourdes avrebbe potuto salvarla da un futuro di zitellaggio assicurato!” Misteri della vita!
“Ho visto che c’è un nuovo acquisto. Mi sa che devo partire più spesso, adesso!”, diceva il deficiente mentre con lo sguardo languido si bloccava all’altezza delle mie labbra.
“Forse la signorina mi può dare qualche consiglio utile: cosa piace sentirsi dire alle donne?”
Oh mio Dio! Vomito al sol pensiero. Era peggio di quando un ragazzo pensò di farmi un complimento pronunciando testuali parole: “Scusa, mi sai dire chi è il tuo elettrauto?” Davanti al mio sguardo perplesso, aggiunse: “Vorrei sapere chi ha avuto la fortuna di montarti quei fari al posto degl’occhi!” E il cric? Vuoi che ti faccia vedere anche quello?
L’unico aspetto positivo di tutta la faccenda fu che, a distanza di qualche anno, ebbi il piacere di scoprire che con quel professore avrei dovuto pure sostenere un esame. Mentre il docente non ricordava minimamente chi fossi (capita spesso in una facoltà con quattordicimila iscritti), io conoscevo perfettamente il suo profilo psicologico. L’esame fu rapido, indolore e con lieto fine. Ditemi che non sono brillante!
Il mio stage in quell’agenzia si rivelò un successo clamoroso. Tutti cominciarono a volermi bene e, date le mie dimensioni, a considerarmi una sorta di mascotte. Dalla compilazione dei biglietti, rapidamente, passai alle prenotazioni fino ad arrivare alla partecipazione ad un corso d’aggiornamento e, per concludere, alla collaborazione nell’organizzazione dei preparativi per una manifestazione letteraria.
A proposito di quest’ultima, un giorno, mi mandarono in aeroporto per prendere alcuni dei partecipanti. Avete presente quelli con il cartello “Mr Brown”? Esattamente. Io dovetti fare anche quello. Il problema, però, sorse allorché dovetti riuscire a rendermi visibile in mezzo a tutta quella gente. Trovare l’ago in un pagliaio sarebbe stato più semplice.
La mia avventura terminò allorché capii che se avessi continuato a lavorare, difficilmente, sarei riuscita a terminare i miei studi. Il giorno in cui chiesi di avere il mio certificato di stage, nessuno sembrava disposto a darmelo.
Era bello sapere che tutti riconoscevano le mie capacità. Sarebbe stato ancor più bello se mi avessero pagata. A buon rendere.
Dopo aver raccontato della parentesi “black-out”, vi chiederei di fare un passo indietro e ritornare a quello che si potrebbe definire il mio battesimo nel turismo.
La storia che sto per raccontare potrebbe avere come sottotitolo “A buon rendere: l’arte del volontariato”.
Tuttavia, trattavasi di un volontariato consenziente giacché rappresentava quel periodo di stage necessario per ottenere l’autorizzazione ad entrare ufficialmente tra gli operatori del settore turistico.
Quando arrivai in agenzia non fui accolta con grande entusiasmo. Chissà per quale motivo quando arriva uno nuovo, in qualsiasi posto di lavoro, ci si sente obbligati a farlo sentire di troppo.
Questa situazione non durò a lungo perché la mia volontà d’imparare e lavorare furono così manifeste da spingere i miei datori ad affidarmi compiti sempre più importanti e, soprattutto, sempre più numerosi.
Era un periodo di transizione per il mondo delle agenzie turistiche: non tutti possedevano la stampante per i biglietti aerei elettronici. La mia sicuramente non l’aveva.
Detto questo, potete immaginare che uno dei primi compiti fu quello di amanuense. Compilai centinaia di biglietti aerei mandando la gente in giro per il mondo.
In tutta onestà, ciò non mi dispiaceva. Scrivevo e il mio egocentrismo mi portava a considerare quei coupons di alta manifattura una manifestazione diretta della mia presenza. La mia grafia in giro per il mondo: niente male come inizio.
Poco alla volta, accadde che uno dei soci (quello che mi prese maggiormente a cuore) cominciò a spiegarmi come muovermi all’interno del magico mondo delle prenotazioni aeree. Ogni agenzia ricorre ad un programma prestabilito.
In un primo momento si ha la sensazione di vagare nel vuoto. A me sembrava di camminare nuda in un deserto battuto dalla tempesta di sabbia: ogni qualvolta cercavo di tenere gli occhi aperti, era una tragedia.
“Cheingqazetasleshzetazeta” rappresentava la chiavetta d’accensione del motore. A partire da quell’input, poi, ci si sbizzarriva con una sequela di codici che in breve tempo portavano all’emissione di un biglietto aereo.
Sembrava follia. In realtà, in brevissimo tempo si finisce con l’imparare tutti quei codici a memoria. Ciò implica un’inconscia trasformazione nel tuo modo di leggere la vita. Trattandosi di me, la cosa fu un po’ più complessa.
In breve tempo ne memorizzai una quantità sufficiente da provocare una certa dipendenza. Il vero problema, infatti, fu che non riuscii più a vivere senza loro. Li ripetevo di continuo: mentalmente, verbalmente. Cercavo di applicare quelle formulette magiche su tutta la mia vita quotidiana. Quando qualcuno mi raccontava qualcosa, avevo serie difficoltà a mantenere il filo del discorso. Il mio cervello, infatti, in totale autonomia giocava a fare il traduttore simultaneo.
“Ciao, come stai?” veniva interpretato dal mio cervello, più o meno, in questo modo:
“?Ccccccsleshslehcmslesstaoie”. A questo punto, potete immaginare che le mie risposte si limitavano a: “Bene, bene!” (“!BnsleshBn”).
Offrire la conoscenza di tutti quei codici a una persona abituata a trasformare in fumetto ogni racconto letto o ascoltato, può rivelarsi altamente pericoloso. Se quella persona, inoltre, ha la tendenza a considerare ogni lettera, o segno, dotato di vita propria, è delirio.
Non so quando sia avvenuto questo cambiamento in me. E’ probabile che ciò risalga a un incontro con un U.F.O. del quale, tuttavia, non ricordo nulla se non il nome. Alla stessa data, probabilmente, risale il primo incontro con i folletti della mia fantasia. Non erano funghetti. Ho detto folletti! Malpensanti.
La conoscenza dei codici si traduceva in libertà di movimento e gestione autonoma dei clienti. Quando non c’era nessuno, mi sbizzarrivo a simulare una serie infinita di prenotazioni. Credo di essere l’unica di tutto il creato ad aver compiuto il giro del mondo in otto ore.
Mi divertiva da morire associare al codice “pmo” (aeroporto Falcone-Borsellino) quello di “jfk” (New York), “mpx” (Malpensa). Ciò mi dava la sensazione di essere veramente libera. Potevo viaggiare rimanendo comodamente seduta sulla mia sediolina a rotelle.
Tutto ciò, ovviamente, poteva avvenire in assenza di clienti. Ma, quando l’agenzia si popolava di potenziali viaggiatori e gli anziani erano già occupati, toccava a me l’onore di assecondare le loro piccole manie da giovani esploratori.
L’ultimo termine, in realtà, si addiceva a ben pochi clienti. A onor del vero, infatti, è possibile tracciare una sorta di profilo psicologico del viaggiatore non prima però di averlo inserito in una delle tre categorie disponibili.
In base alla mia esperienza, sia in veste di osservatore che di promotore, vi sono tre tipi di clienti che si recano in un’agenzia di viaggi:
1. Futuri sposi
2. Clienti affezionati. A loro volta si distinguono in due sottocategorie: viaggiatori per lavoro e viaggiatori stagionali
3. I richiedenti di preventivi per luoghi esotici: non partiranno mai
A questi tre tipi, in realtà, potrebbe aggiungersi una quarta categoria: i viaggiatori con secondi fini.
A quest’ultimo gruppo appartengono quelle persone che si recano presso un’agenzia di viaggi, fingendo di dover organizzare una mega vacanza di gruppo in compagnia di altre venti persone. Dopo averti costretto a cercare le migliori offerte, ti invitano per un’uscita a due che non coinvolge il tuo attuale fidanzato.
Per quanto risultino poco affidabili, in realtà, dopo tre anni di silenzio, ti si presentano con un’inaspettata proposta di matrimonio. Nel mio caso, accettai volentieri.
Ritornando alle tre categorie standard, va detto che i primi t’infondono un’infinita tenerezza. Lui è innamorato e non ancora vittima del fascino sensuale del televisore a schermo gigante che riceverà a breve. Inserito il gioco nella mega lista nozze al negozio di elettrodomestici, basterà attendere il primo gruppo di zii che partecipando con una quota, segnerà l’inizio della fine.
Lei è profondamente innamorata e le si può leggere negli occhi l’eccitazione nel sapere che, a breve, verrà inserita ufficialmente nella categoria nuore.
Il che l’autorizzerà a parlare male della suocera, lamentarsi per le pulizie da fare, rompere le palle per il disordine del marito e, soprattutto, cominciare a sentire i primi sintomi di una gravidanza per il solo fatto di averla programmata.
Lui e lei sono felici perché non ancora caduti nella trappola di quel luogo comune che vede nel matrimonio la fine di ogni speranza e l’emblema del tuo più grande fallimento.
Lavorare per una giovane coppia di futuri sposi non è così difficile: basta dare loro un pizzico di esotismo, una buona dose di romanticismo, uno sconto “luna di miele” e un set da viaggio quale gentile omaggio per l’ottima scelta.
L’ultima categoria, invece, non gode di grande simpatia. Quando a distanza di una settimana ti si ripresenta lo stesso potenziale cliente con una nuova destinazione, la prima reazione è quella di guardarti intorno nella speranza che i tuoi colleghi siano liberi.
Trascorrere un’ora in compagnia del soggetto in questione, infatti, equivale a sprecare il fiato e l’energia. Volendo essere ottimisti, invece, quel lasso di tempo si potrebbe considerare una sorta di ripasso delle proprie conoscenze geografiche. Sta di fatto che tutti vorrebbero evitarlo.
La seconda categoria, infine, è di gran lunga la più interessante. Nella maggior parte dei casi, la caratteristica principale sarà l’antipatia. A questa, per alcuni soggetti che più avanti si analizzeranno, può aggiungersi una buona dose di arroganza.
Tra le due sottocategorie, quella dei “vacanzieri stagionali” è la meno devastante.
La coppia, talvolta accompagnata da prole, ha quasi sempre le idee molto chiare. Mettiamo il caso che l’anno precedente siano stati in un villaggio di loro gradimento. La richiesta, quasi sicuramente, si baserà sul desiderio di trovare un villaggio simile da un’altra parte.
Sebbene il desiderio sia quello di trovare delle “camere simili”, dei “servizi simili”, una squadra di animatori “simili” e, soprattutto, delle “tariffe simili”, cadranno presto nella tentazione di abbandonarsi ad una esperienza nuova.
Si tratterà solo di tentazione. I ritorni puntuali ai ricordi dell’estate precedente, alla bellezza della piscina, alla cortesia del personale ed alla vicinanza con la spiaggia attrezzata, infatti, non lasceranno alcuno spazio al dubbio. Vogliono andare nel clone del villaggio già conosciuto.
A tal proposito, si potrebbe obiettare che tanto vale andare sul sicuro. Ma, non si può. Il vacanziere stagionale, infatti, ha il terribile bisogno di mostrare le foto della propria vacanza. Potrà mai organizzare una cena con gli amici e riproporgli le stesse immagini dello scorso settembre?
No. Da escludere assolutamente. E’ importante che si veda che la palma nana dell’anno prima, fotografata davanti l’ingresso della ricezione, sia stata sostituita da una pianta di magnolie.
E’ fondamentale che il bordo della piscina presenti dei gradini, piuttosto che la scaletta alla quale, l’anno precedente, si erano fatte abbarbicare le donnine di casa per immortalare l’eleganza e la spontaneità con la quale, munite di cuffietta azzurra, si accingevano ad uscire da quella meraviglia.
Insomma, è importante che il clone sia vestito di nuovo.
La crisi del turismo, mi pare, sia riconducibile non tanto all’insorgere di una dilagante crisi economica; quanto al diffondersi delle nuove tecnologie. Grazie all’uso delle macchine digitali associate al photo shop ad esempio, si possono apportare tutte le modifiche necessarie affinché le foto dell’anno precedente risultino assolutamente nuove. Si risparmiano un bel po’ di soldini e le rughe non si vedranno mai.
Dulcis in fundo, non ci resta che spendere due paroline sulla sottocategoria dei
viaggiatori d’affari. Salvo rare eccezioni, si tratta di individui appartenenti, per altro, alla categoria ampiamente discussa nel capitolo precedente, gli “indispensabili”.
Costoro rendono trionfale finanche il loro ingresso. Con lo sguardo fiero, vestiti di tutto punto e nemmeno l’accenno di un sorriso, si dirigono direttamente verso il proprietario dell’agenzia. Capita alle volte che dimentichino di salutare, probabilmente perché in attesa dell’inchino di tutti i sudditi.
Seduti sulla loro poltroncina, nella loro mente considerata una sorta di trono da viaggio, assumono una posizione standard. All’interlocutore, infatti, offriranno il fianco (manco fosse un paggetto), e con il gomito appoggiato sulla scrivania attenderanno che il ministro per gli affari esteri chiederà loro come stanno.
I loro sorrisi, simili a tic, avranno la durata di un nano secondo. Al contrario, se sono loro ad abbozzare l’aborto di una battuta, scrosciante sarà la risata di tutti i dipendenti.
Nel mio caso, tutti tranne me.
Non perché io fossi più intelligente degli altri o, più semplicemente, perché non avvezza a certi comportamenti sociali, ma perché troppo presa dall’osservazione del comportamento dell’animale uomo dinanzi a simili situazioni.
Il mio cervello, infatti, si sbizzarriva in una sorta di crono storia: “Ecco che il maschio si avvicina al resto del branco facendo sfoggio di tutta la sua eleganza. Gli elementi dominanti della specie, difficilmente, soccombono alle regole della buona educazione … bla bla bla”.
Antipatia infinita.
Un paio di volte, ciò mi capita spesso anche in altri contesti, la mia mente si sbizzarrì in turpiloqui inconfessabili. M’immaginavo mentre, alzatami improvvisamente dalla mia postazione, cominciavo ad elencare le regole delle buone maniere.
A quelli estremamente antipatici, inoltre, cominciavo a fare l’elenco di tutti i loro difetti. Niente di filosofico o particolarmente profondo. “Ma lo sa che la sua cravatta fa veramente schifo?”
“Le hanno mai detto che il profumo che usa è simile al prodotto che mia madre utilizza per la disincrostazione dei cessi?”, “Può scrollarsi la forfora dalle spalle, per favore? I miei occhi sono particolarmente sensibili dinanzi a simili obbrobri”
Inutile dire che tutte queste geniali battute rimasero frutto della mia fantasia. I miei folletti, tuttavia, avendo il potere di leggere nella mia mente, applaudivano, e con le gambette incrociate, si scompisciavano dalle risate. I più incontinenti, un paio di volte, bagnarono la mia scrivania.
Ricordo con particolare affetto due persone appartenenti alla suddetta specie: un professore universitario e un dirigente della regione.
Il primo era odioso perché, grazie alla sua elio-presunzione, sembrava fluttuare nell’aria come un palloncino sgonfio; il secondo perché, vittima del suo stesso fascino, pensava che ad ogni suo complimento ci si dovesse liquefare come la panna delle bustine.
Il professore pensava che la prenotazione di un biglietto aereo richiedesse una postura da esame: sguardo fisso sullo statino, frasi dette con tono interrogatorio, labbra serrate e vocali mozzate: “M dca qual’ il przzo più convenient”. Sì, e magari già che ci siamo ti parlo pure della tesi, antitesi e sintesi di Kant!
Il regionale, dal conto suo, pensava che il suo ingresso in agenzia dovesse essere simile alla passerella della notte degli Oscar. Seguito da un paio di portaborse, indossando un impeccabile abito Canali, e reggendo la sua quarantottore, si avvicinava alla scrivania prima di pronunciare un sensualissimo “saaaaaaaalve”.
Non si avvicinò mai alla mia postazione. Di contro, un paio di volte, si lasciò andare ad apprezzamenti sulla mia presenza parlando direttamente con il titolare il quale, a sua volta, aveva appena finito di dire alla moglie che “la nuova arrivata era un cesso clamoroso”, e che “solo un viaggio a Lourdes avrebbe potuto salvarla da un futuro di zitellaggio assicurato!” Misteri della vita!
“Ho visto che c’è un nuovo acquisto. Mi sa che devo partire più spesso, adesso!”, diceva il deficiente mentre con lo sguardo languido si bloccava all’altezza delle mie labbra.
“Forse la signorina mi può dare qualche consiglio utile: cosa piace sentirsi dire alle donne?”
Oh mio Dio! Vomito al sol pensiero. Era peggio di quando un ragazzo pensò di farmi un complimento pronunciando testuali parole: “Scusa, mi sai dire chi è il tuo elettrauto?” Davanti al mio sguardo perplesso, aggiunse: “Vorrei sapere chi ha avuto la fortuna di montarti quei fari al posto degl’occhi!” E il cric? Vuoi che ti faccia vedere anche quello?
L’unico aspetto positivo di tutta la faccenda fu che, a distanza di qualche anno, ebbi il piacere di scoprire che con quel professore avrei dovuto pure sostenere un esame. Mentre il docente non ricordava minimamente chi fossi (capita spesso in una facoltà con quattordicimila iscritti), io conoscevo perfettamente il suo profilo psicologico. L’esame fu rapido, indolore e con lieto fine. Ditemi che non sono brillante!
Il mio stage in quell’agenzia si rivelò un successo clamoroso. Tutti cominciarono a volermi bene e, date le mie dimensioni, a considerarmi una sorta di mascotte. Dalla compilazione dei biglietti, rapidamente, passai alle prenotazioni fino ad arrivare alla partecipazione ad un corso d’aggiornamento e, per concludere, alla collaborazione nell’organizzazione dei preparativi per una manifestazione letteraria.
A proposito di quest’ultima, un giorno, mi mandarono in aeroporto per prendere alcuni dei partecipanti. Avete presente quelli con il cartello “Mr Brown”? Esattamente. Io dovetti fare anche quello. Il problema, però, sorse allorché dovetti riuscire a rendermi visibile in mezzo a tutta quella gente. Trovare l’ago in un pagliaio sarebbe stato più semplice.
La mia avventura terminò allorché capii che se avessi continuato a lavorare, difficilmente, sarei riuscita a terminare i miei studi. Il giorno in cui chiesi di avere il mio certificato di stage, nessuno sembrava disposto a darmelo.
Era bello sapere che tutti riconoscevano le mie capacità. Sarebbe stato ancor più bello se mi avessero pagata. A buon rendere.
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