"Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci d'ogni grande azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla conservazione di questa infelice vita senz'altro pensiero."
(Giacomo Leopardi)



"In pratica le persone che mi vogliono bene spesso non si accorgono infatti che il loro "ti appoggio" si trasforma in un "mi appoggio"
(Miranda Taten)



mercoledì 30 gennaio 2008

"Brillante" Undici/1

Viaggiatrice o turistica?

Da quando sono venuta al mondo ho sempre subito il fascino prepotente e sensuale del Viaggio. Bastò quel primo breve tragitto dal ventre materno alle mani dell’ostetrica, passando per lo stretto di Vagilmamma, perché comprendessi appieno l’importanza di questo tipo di esperienza.
Il viaggio, da sempre metafora della vita, racchiude in sé un simbolismo tale da essere riuscito a mandare in visibilio milioni di scrittori. Chi viaggiava per davvero. Chi faceva finta di aver viaggiato. Chi desiderava viaggiare verso magiche terre dell’utopia. Infine, chi viaggiando viaggiando è riuscito a incontrare persino gli Houyhnhnms[1], popolazione di gran lunga preferibile a quella del campeggio nel quale ho avuto l’onore di lavorare.
A questo punto vi chiederete se il folletto Geo&Geo si sia impossessato di me dato che, parlando di esperienze lavorative, mi sono lasciata andare alla riflessione più profonda di tutto l’intero capolavoro.
No. Tranquilli. Geo avrebbe voluto parlare ma data l’ora l’ho appena mandato a comprare il pane assieme ai folletti Mafalda e Quartino.
La lunga introduzione nasce, in realtà, dal desiderio di rendervi partecipi di altre due esperienze lavorative sperimentate sulla mia pelle. State tranquilli perché saranno le ultime due.
Causa “volontà di non perdere qualche amico”, raccontando verità a sproposito, la mia dimostrazione dell’essere una persona tanto Brillante quanto sfigata sta per giungere al suo termine. Il resto sarà storia: nel secondo volume.
Cosa può fare una persona che ama così tanto andare alla scoperta di mondi ignoti? Le opzioni sarebbero tre:

1) Viaggiare
2) Far viaggiare e sorridere di riflesso
3) Andare a fare una passeggiata in uno dei mercati rionali: è economico, folcloristico e se non si ha dimestichezza con il dialetto, non si capiranno molte delle battute.

Volendo capitalizzare la mia passione, nella speranza di poter continuare a praticarla, un giorno decisi di cominciare a lavorare nelle agenzie di viaggio: centro nevralgico dell’intera organizzazione, quando ancora il nome Internet faceva pensare al cugino del Vermut.
“Gradisce un po’ di Internet?” disse il cameriere. “No, grazie. Prenderò del limoncello!” rispose il cliente.
Quando manifestai questo mio desiderio, immediatamente, mi sentii dire che il lavoro presso un’agenzia di viaggi prevedeva un primo stage e, solo dopo aver acquisito dimestichezza col mestiere, una sorta di reclutamento a “buon rendere”.
Non avevo nulla da perdere. Accettai di buon grado quell’esperienza che, un giorno non troppo lontano, mi avrebbe consentito di unire alla mia laurea in lingue anche il tirocinio: sarei potuta andare, dunque, in prigione senza passare dal via.
In realtà, prima di raccontarvi della mia prima esperienza di “addetto alla biglietteria nazionale ed internazionale”, vorrei parlare della seconda volta.
A tal proposito vi dico immediatamente che fu un totale fallimento. Non saprei dire cosa sia accaduto nel momento esatto in cui varcai la soglia di quell’ufficio. Fu come se tutti i miei neuroni avessero deciso all’unisono di aspettarmi in macchina. La storia dell’essere brillante, immediatamente, si trasformò in leggenda metropolitana.
Fu black-out.
Il solo rispondere al telefono mi metteva ansia. Accendere il computer per vedere quali meraviglie si profilavano davanti ai potenziali viaggiatori, un’odissea.
In realtà, le cose non andarono esattamente così. E’ più probabile che sia io a percepirle in quel modo.
La proprietaria dell’agenzia, infatti, non credo avesse molta intenzione di assumere nuovo personale quando il marito, di tutt’altra natura, mi offrì quel posto. Sin dal primo giorno, infatti, parlare di ostilità nei suoi occhi sarebbe stato solo un eufemismo per descrivere un ben più complesso atteggiamento di rifiuto. Devo dire: tipicamente femminile.
Era un po’ come la storia della donna che cerca di minare il tuo rapporto col marito: non si esporrà mai con lui, ma subdolamente s’insinua come il più viscido dei vermi.
Sì, noi donne siamo così. Perverse, contorte e, devo aggiungere, assolutamente consapevoli dell’ingenuità o superficialità dei nostri ometti. Costoro, infatti, totalmente assorbiti dalle classifiche di calcio e dall’ammirazione per Rocco Siffredi, spesso dimenticano di guardarsi attorno e, soprattutto, di guardare oltre.
Capita spesso di sentire dire al proprio compagno, in riferimento alla iena di turno,: “Ma come?!!!!! Lei dice che sei troooooppooooo simpatica! Noi parliamo sempre di te.” A quel punto non ci restano che due strade: 1) trasformarci in belve feroci. Non si richiedono eccessivi sforzi; 2) fare lo stesso gioco della viperetta insinuatasi nel tuo rapporto di coppia e lasciarti andare a un panegirico in onore della simpatica signorina.
Se prendiamo in considerazione la prima possibilità, dobbiamo essere assolutamente consapevoli dei rischi ai quali andiamo incontro. L’uomo, infatti, per sua natura sfugge tutto ciò che gli risulta problematico.
Se dovesse decidere di mettere da parte il suo piccolo svago a seguito della vostra sfuriata isterica, state pur certi che lo farà solo perché non è più disposto a convivere con la reincarnazione di un Pitbull idrofobo. A quel punto, non solo vi odierà con tutta l’anima perché avete osato disturbarlo in piena partita di calcetto a due; ma, soprattutto, vi punirà con silenzi d’oltretomba e tradendovi mentalmente con la viperetta.
Nel secondo caso invece, il quale richiede un’ottima capacità di auto controllo e recitazione, è più probabile che sia lo stesso maritino a stancarsi, e quindi a buttare nella spazzatura l’immagine della iena e tutte le fantasie erotiche che la vedevano quale co-protagonista del suo bellissimo film.
Io, con grandi difficoltà, sono una seguace della seconda scuola di pensiero: distruggo le nemiche con l’attesa, la simpatia, l’assoluta disponibilità ad accoglierle in famiglia in veste di concubine. Fortunatamente non hanno mai accettato la proposta.
Non ci credete? Una sera, non troppo lontana nel tempo, fummo invitati ad una cena. Non ci volle molto a capire che ero stata prescelta quale ingenua della situazione. Mettendo da parte il fatto che fummo accolti dalla padrona di casa con addosso un elegantissimo reggiseno, ad un certo punto una dei convitati mi disse: “Io vorrei dare dimostrazione delle mie capacità sessuali con tuo marito”. A quel punto avrei potuto alzarmi, offenderla, obbligare mio marito ad andare via da quel covo di ninfomani. Invece?
La mia risposta fu secca, decisa ed inaspettata: “Certo. Non ci sono problemi. A patto che tu mi faccia assistere. Mi eccitano questi giochi di gruppo”. Conclusione?
I ghigni sui volti dei presenti si trasformarono in boccucce di rosa aperte per lo sgomento. La mia proposta non venne accettata e per il resto della serata si parlò solo di problematiche coniugali e difficoltà sul lavoro. Noia mortale! Fine degli inviti.
Volendomi scusare per il lungo excursus, e ritornando alla fallimentare esperienza in agenzia vi dico che la moglie del titolare rientrava a pieno titolo nella nomination a “Vipera subdola, cesso esemplare, ipocrita imbattibile e Yorkshire idrofobo”.
Dal canto mio, non nutrendo alcun interesse per suo marito, avevo serie difficoltà a dimostrare le mie capacità lavorative in un ambiente così ostile. Trascorrevo le mie otto ore in ufficio alla ricerca di un modo per farle capire che mi trovavo lì per imparare.
Non avevo speranza. Per quanto mi sforzassi di non farla sentire minacciata dalla mia presenza, ogni tentativo di avvicinamento risultava assolutamente vano. Immagino che nella sua mente mi avesse catalogata nella categoria “stronze simpatiche”.
Un giorno, addirittura, le chiesi espressamente se avessi fatto qualcosa di molesto nei suoi confronti. Nel qual caso, le avrei chiesto scusa. Poiché lo feci davanti al marito, la stronza non poté certo dirmi di sì.
In conclusione, la situazione era diventata talmente tesa che il semplice sistemare i depliants era diventato impossibile. Una sorta di morbo di Parkinson aveva preso pieno possesso delle mie mani.
La situazione era molto simile a quelle vissute un paio di volte ai tempi del liceo. Capitavano dei giorni particolarmente negativi: pur avendo studiato, bastava una semplice parola e il cervello andava letteralmente in tilt. Più cercavo di recuperare la situazione, più sprofondavo nelle sabbie mobili di un “quattro” assicurato.
“Ceingqazsleshzzitpmompx”. Non si tratta né di un errore di battitura, né di uno dei folletti della mia fantasia che cerca di mandarvi un segnale d’allarme in codice.
Furono esattamente quelle le parole pronunciate dalla simpatica datrice di lavoro allorché decise di dimostrare al mondo quanto fossi inefficiente e, di conseguenza, inutile.
Da quel momento i nostri dialoghi, o i suoi soliloqui, si limitarono alla recitazione di codici, formule ed enigmi.
In realtà, alle volte, avevo anche l’onore di sentire la storia della sua tanto sofferta carriera professionale. Ascoltandola pareva di leggere la fonte originale della “Piccola fiammiferaia”: maltrattamenti, sfruttamenti, violenze psicologiche e raggiungimento dei propri obiettivi grazie alla sola forza di buona volontà e intelligenza non pubblicamente riconosciuta.
Con questo non voglio mettere in discussione la sua carriera sofferta. Né tanto meno le sue indiscutibili capacità professionali. Ciò che mi lascia riflettere è solo il fatto che, pur essendo assolutamente consapevole dei torti subiti, non aveva alcun problema a usarmi quale capro espiatorio.
Parliamoci chiaro. Ci sono delle categorie sociali ben precise che se non esistessero renderebbero la vita più semplice a tutti. Secondo una personale classifica, tra i più rompipalle del mondo vi sono:

1. Quelli che “si sono fatti da soli”. Categoria esemplare nel fornire l’elenco di tutto ciò che è riuscita a costruire. Da questi personaggi non si fugge. Un giorno sì e uno no (e tutte le volte che gliene darete l’opportunità) vi ripeteranno l’ordine cronologico della loro scalata sociale. Quel che è peggio è che lo faranno ostentando una falsa tenerezza quando, al contrario, godono nel farvi capire che se non ci siete riusciti è solo perché non valete un micron della loro intelligenza.
2. Gli avari. Spesso ne fanno parte coloro i quali hanno dimenticato quanto doloroso e frustrante possa essere il non vedere riconosciuti i propri meriti.
3. Gli indispensabili. Categoria convinta che il corretto funzionamento della galassia dipenda esclusivamente dalla propria esistenza. Con estremo cinismo mi piacerebbe portarli a fare un giro per i cimiteri della città.
4. Quelli che si demoliscono solo per sentirsi dire che hanno torto. “Sono grasso” … “Ma no! Non sei grasso. Stai benissimo!” “Sono brutto” … “Ma no! Sei così carino!” … “Sono basso” … “Ma dai! Fossi io alta tre metri!”

Sono aperta a tutte le modifiche che vorrete propormi.
Per ciò che riguarda l’amabile datrice di lavoro, mi sembra di poter affermare che rientrasse a pieni titoli sia nella prima, che nella seconda categoria.
Io, dal mio canto, non riuscii a dare il meglio di me perché troppo concentrata a disegnare un profilo psicologico della iena ridens.
Era, inoltre, un periodo della mia vita in cui l’insicurezza regnava sovrana a dispetto dell’immagine che gli altri potessero avere di me.
Decisi di chiudere quella parentesi lavorativa quando capii che non avevo alcuna speranza di riuscita nel tentativo di far emergere il genio che viveva in me. Ma, soprattutto, quando mi resi conto che nonostante gli elogi del marito e della sua collaboratrice, il mio destino era già stato segnato.
Per fortuna, tutte le mie lacune vennero colmate dal suo maggiore passo falso: l’ipocrisia e la cattiva fede.
Nell’arco dell’intero mese, infatti, mi era stato affidato un compito oneroso ed entusiasmante: la collaborazione nell’organizzazione di un convegno. In quello, deu gratias, non avevo avuto alcun problema.
A tre giorni dal suddetto convegno e, soprattutto, a due giorni dalla fine del “mese di prova”, il suo incontro con il consulente fu decisivo. Chiusi in una stanza, infatti, dovevano decidere delle mie sorti. Sentii, nonostante i suoi tentativi di mantenere il tutto segreto, la sua lite furibonda con gli altri tre.
Il marito sosteneva che dovessero tenermi anche se per i viaggi avevo avuto qualche problema. La collaboratrice sosteneva che dovessero tenermi tenuto conto del fatto che il convegno l’avevo organizzato bene. L’ipocrita, invece, disse che ero una persona assolutamente incapace e che per quel poco che valevo, al massimo, avrebbe potuto darmi trecento euro al mese per sei giorni la settimana, otto ore lavorative.
Non fu il denaro a farmi demordere, quanto la consapevolezza che l’eroina dei due mondi, piccola fiammiferaia del nuovo millennio, a domanda esplicita non avesse mai avuto il coraggio di controbattere in base a ciò che pensava di me.
Non sono manie di persecuzione. Il mostro di simpatia, infatti, non ebbe nemmeno il coraggio di farmi la sua proposta, affidando l’arduo incarico al marito.
Quando gli consigliò di farmi rimanere fino al convegno per non togliermi il piacere di portare a termine il lavoro cominciato, non ebbi dubbi.
Tesa come una corda di violino, sì. Imbranata, sì. Stupida, no. Sapevo perfettamente che se me ne fossi andata il giorno esatto della scadenza, avrebbero avuto non pochi problemi a gestire quel convegno del quale nessuno si era occupato. Perché, dunque, avrei dovuto ringraziarli per la proposta di rimanere due giorni in più pur di godere del lavoro che avevo organizzato?
Quando mi rifilarono la storiella di quanto fosse giusto darmi l’onore di occuparmi del convegno, non ebbi alcuna esitazione nel dire loro che, pur ringraziandoli di cuore, ero costretta a declinare l’invito.
Fu come se le parole denigratorie, acide in modo esponenziale, della piccola fiammiferaia avessero attivato quell’interruttore il cui funzionamento si era inceppato un mese prima. Tutto mi sembrò chiaro.
Mi sembrava di vederli i miei folletti della fantasia mentre, uno alla volta, un po’ ammaccatelli uscivano dalla mia mente con lo sguardo perplesso e, soprattutto, in attesa della mia risposta.
Sebbene la proposta mi fosse stata fatta in assenza, assolutamente calcolata, della simpaticona, chiesi la cortesia di aspettarla per darle la mia risposta.
“Dopo un mese assieme, non mi sembra carino parlare senza lei!”, dissi sfoggiando il più tenero ed ipocrita sorriso della mia vita.
All’arrivo di Crudelia, assolutamente ignara della trasformazione che avevo subito nel lasso di tempo della sua assenza, cominciarono delle vere e proprie trattative.
Dopo avermi rifilato la stessa storiella sul desiderio di non togliermi l’immenso piacere di assistere al convegno, la risposta che le diedi fu chiara, netta, odiosa e inaspettata.
“Non sento il bisogno di verificare che ho lavorato bene per ciò che concerne il congresso. Pur ringraziandovi per la proposta, domani sarà il mio ultimo giorno. Non ho né intenzione di lavorare alle condizioni che voi, giovane azienda recentemente affacciatasi nel mondo del lavoro, mi proponete; né quella di lavorare gratuitamente ad un convegno solo perché non sapete da dove cominciare”.
Detto ciò, mi parve di scorgere tutti i miei folletti che, felici per la mia rinascita, cominciarono a saltellare sulla sua scrivania inviandole dei messaggi chiari: gesto dell’ombrello, linguacce e cori da stadio.
Due giorni dopo partecipai al convegno. Pur indossando la più brutta delle divise che un’azienda possa comprare per le hostess, fui felice di riscuotere un bellissimo assegno da seicento euro. I tempi del lavoro in campeggio erano finiti. Il volontariato, pure.

[1] Jonathan, Swift, “Gulliver’s Travel”.

Mrs Satiri...khan ha chiesto la parola

Di pensieri e opinioni
Io, ne avrei a milioni.
C’è un pretesto che desta
Riflession nella mia testa
E’ per questo che mi chiedo
Quale sia il vostro credo.

C’è chi ha usato un libro sacro
Per commettere reato;
C’è chi accende una candela
Per sfuggire alla galera;
C’è chi veglie ha organizzato
Per non esser condannato.

Io mi chiedo, tuttavia
Se la colpa non sia mia:
forse gli occhi ho troppo aperti
in un mondo di sospetti
in cui il furbo e il faccendiere
si muovon con piacere.
Dove il ladro e lo strozzino
Si salutano con un inchino.

La colpa forse sta nel fatto
Che per compiere un misfatto
Basta leggere al contrario
Quel famoso dizionario
Dove Legge e Legalità
Non fan rima con Onestà.
Manca poco e il mondo tutto
Gioirà per un lutto!

E’ la festa dei contrari
Dove incontri non son rari
Con gentaglia e brutti ceffi
Che ci trattan come cessi.
Raccogliamo i loro avanzi
Dopo i loro lauti pranzi;
ascoltiamo obbedienti
dei loro speciali espedienti.

Se per pochi anni di condanna
Si festeggia con la panna,
io mi chiedo a questo punto:
all’ergastolano, vedi Provenzano,
cosa offriamo?

Il problema è solo uno
Che se non parla nessuno
Ai nostri figli insegneranno
Che si può far anche danno.

Le mie son solo riflessioni,
chiamatele opinioni.
A Falcone e Borsellino
Va il mio sincero inchino.
A Peppino, l’Impastato,
che capì cos’è reato.

A tutta quella gente
Che crede fermamente
Che nel mondo dei contrari
Posson vivere i sicari,
Ma, non nel mondo di mio figlio
Puro solo come un giglio.
Io rispetto solo quelli
Che sanno di esser belli
Perché il famoso dizionario
Non lo leggono al contrario.

Sanno, appunto, che la Legge
È qualcosa che protegge;
che i cannoli o la Bibbia
pur rimando con Rebibbia,
son prodotti un po’ speciali,
per certi versi originali!
che si usan per dar piacere
a chi della vita vuol godere
senza offese e senza inganni,
senza mai arrecar danni.

Sarò strega, sarò brutta
Ma non sono farabutta.
A me piace ragionare,
con la gente dialogare.

Io vorrei che il mondo intero
Con affetto sol sincero
Si destasse e rileggesse
Le sue regole mal messe.

lunedì 28 gennaio 2008

Motivazioni

In questi giorni di silenzio sul blog, ho potuto constatare che nutro una vera repulsione verso tutti quei moduli che, ad un certo punto, presentano la voce “motivazioni”.

Pare che al mondo intero interessino i motivi che ci spingono a presentare quella data domanda entro una data scadenza. Non basta dunque che quest’ultima penda sopra le nostre teste come una spada di Damocle. No: entro un giorno prestabilito devi decidere quale tra tutte le motivazioni finte che ti sei via via preparato, possa essere la più adatta a fare la differenza tra te ed altre centinaia di persone che, come te, si stanno dannando l’esistenza alla ricerca di altrettanto validi motivi.

In realtà, non ci sarebbe nulla di male nello spiegare cosa ci spinga a compilare seimilacinquecento pagine: è opportuno infatti precisare che non si tratta di masochismo.

Ma il vero problema è che le motivazioni richieste sono già state ampiamente stabilite. In altre parole, secondo me, esiste una sorta di “elenco delle motivazioni” assolutamente sconosciuto al povero compilatore. Solamente dieci tra l’infinita gamma di motivazioni a disposizione, verranno considerate un buon passaporto verso un’ulteriore selezione di anime in pena.

Qualcuno potrà immediatamente obiettare che sarebbe sufficiente dire la verità. Mai assunto è stato così falso. Se dovessi dire la verità, il problema sarebbe presto e risolto: “presento questa domanda perché non solo sono disoccupata, ma la noia ha ormai preso totale possesso della mia persona. Io e Noia facciamo insieme colazione. Ci laviamo insieme. Il problema subentra al momento di vestirci: avendo una taglia extra-small, infatti, ho qualche difficoltà a farle indossare i miei panni”.

Siete ancora convinti che sia sufficiente essere sinceri? Ogni volta è necessario inventarsi un personaggio nuovo, interpretare quel ruolo fino a convincertene del tutto. Per essere credibile, devi dapprima crederci tu.

Poco importa se nel modulo di domanda per il call center hai scritto che, sin da piccolo (quando ancora l’esistenza di questi centri era una lontana utopia) hai sempre desiderato rispondere al telefono. Dialogare con perfetti sconosciuti, sul da farsi per ottenere l’opzione “paghi you, parlo me & guadagna him”: massima aspirazione.

Poco importa, se a distanza di cinque minuti, scriverai che il tuo vero sogno da bambino era quello di mettere la tua estrema originalità a disposizione di una multinazionale specializzata nella costruzione di macchine aerospaziali: viaggiare nel tempo e nella storia, il massimo della goduria.

Infine, ancor meno importa, se contemporaneamente trasformerai quel tuo sogno in quello di dedicarti anima e corpo all’insegnamento perché la vera chiave per una società di successo è racchiusa in menti intellettualmente sane. Non ci avete capito niente? E’ questo il punto.

A forza di compilare moduli, rispondere a domande sulla tua formazione ed esperienza professionale, il rischio maggiore è quello di perdersi in un fiume di parole.

E’ un po’ la storia dei “temi liberi” ai tempi della scuola. O, peggio ancora, dei temi il cui titolo diceva pressappoco così: “Viviamo in una società in cui la tecnologia pare avere il sopravvento sui rapporti interpersonali. L’affidarsi alle macchine potrebbe, in breve tempo, trasformarsi in vuoto relazionarsi tra gli uomini. Nell’era del computer qual è, secondo te, il futuro dell’umanità? Si potrà ancora parlare di felicità?”

Se un titolo del genere me lo proponessero a trent’anni, capirei immediatamente che la maestra nutre una certa repulsione o, più semplicemente, un certo disagio nei confronti della tecnologia. Capirei che la sua più grande preoccupazione si esprime nel ricorso a termini quali “sopravvento” e “vuoto relazionarsi”. Infine, saprei quasi con matematica certezza che la mia maestra sta attraversando un periodo di crisi esistenziale o, più semplicemente, coniugale. Non ci sarebbero, altrimenti , spiegazioni per l’associazione tra i termini “tecnologia” e “felicità”.

Detto questo basterebbe veramente poco per scrivere ciò che alla maestra piacerebbe leggere. Con una conclusione del tipo: “Concludo dicendo che: sebbene il futuro dell’umanità pare essere del tutto affidato alle macchine (usando questo termine le dimostri tutta la tua comprensione), mi piace pensare che concetti quali “felicità”, “amore”, “tolleranza” e “giustizia” (con gli ultimi due dimostri anche un certo interesse per il sociale) possano sopravvivere nel cuore degli uomini. Senza speranza e senza felicità, la vita non ha senso di essere completamente vissuta”. L’ultima frase è pesantissima. Svuotata della sua importanza. Ma è una frase ad effetto. Avreste molte possibilità di prendere un bel “Bravo”.

Ma quando a otto anni una maestra si presentava con un titolo del genere, erano guai. Pur amando il Game boy, trasmissioni come Bim Bum Bam, i fratellastri di Georgy ed il nuovo robot da cucina della mamma, sapevi che non c’erano speranze. Mentire. Mentire. Era necessario ricorrere a tutti quei termini incomprensibili, ai quali gli adulti sembravano così affezionati, nella speranza di dar vita ad un temino che riuscisse a raggiungere il cuore della maestra e, quindi, la sufficienza.

Tornando alla questione “motivazioni”, in definitiva, la situazione è molto simile a quella descritta: mi sento come se avessi otto anni.

Io una soluzione l’avrei. Sarebbe più semplice scrivere: “Indicare con una crocetta le motivazioni che spingono il candidato a proporsi per il profilo professionale richiesto:

1. Mi piace il nome della vostra azienda

2. Chi mi conosce sa che ho sempre desiderato occuparmi della coltivazione della vite nana in condizioni ambientali impervie

3. Amo le donne/uomini

4. Sono una ninfomane alla ricerca di nuovi talenti

5. Sono astemio/a

6. Mi piace la birra

7. Ho compilato duemilacinquecento moduli e nessuno mi ha ancora assunto

8. Amo farmi sfruttare, preparare il caffè a tutti i miei colleghi, e distribuire coccole e massaggini a profusione a chiunque ne senta il bisogno

9. Sono fermamente convinto/a che la vostra azienda sarà l’unica a sopravvivere alla crisi economica che sta facendo sprofondare il nostro Paese nei gironi infernali danteschi

10. Amo con tutto me stesso/a le iniziali del nome del responsabile delle Risorse Umane che mi farà il colloquio"

Supponiamo adesso che l’azienda in questione si occupi di viticoltura. Inutile dire che le motivazioni da scartare sarebbero: 1; 3; 5; 6; 7.

La 2 sarebbe certamente un buona premessa. La 8 una buona motivazione per l’azienda. La 4, la ciliegina sulla torta.

L’ultima, infine, sarebbe una motivazione originale. Bisognerebbe accertarsi però che al responsabile in questione piaccia il nome che i suoi, al momento della nascita, gli hanno appiccicato addosso. Infatti, se si chiama Sono Ungenio, aumentano le possibilità di riuscita. Se, al contrario, l’hanno chiamato Faccio Ribrezzo, pensateci su.

domenica 20 gennaio 2008

Quando il palato ha qualcosa da dire...


Mi sembra di aver più volte dimostrato, in questo blog, la mia ferma intenzione di dare voce a chi generalmente vede negarsi questo diritto. Non m’importa che abbia un’esperienza pregressa. Né che gli studi affrontati siano necessariamente attinenti al mio campo di ricerca.
L’unica cosa che veramente mi sta a cuore è che niente e nessuno senta mai il bisogno di polemizzare dinanzi ad un mio latente ostracismo. Il mio obiettivo, infatti, è quello di dimostrare che tutti abbiamo qualcosa da dire che può, a suo modo, risultare d’aiuto, di conforto o più semplicemente d’intrattenimento per chi, al contrario, ha deciso di fare silenzio e leggere.
E’ per questo motivo che oggi ho deciso di mettermi in un cantuccio e lasciare la parola ad un mio nuovo amico: Mr Palato.
Costui, infatti, a seguito di un evento che lui stesso avrà il piacere di esporvi, ha deciso di scrivermi una lettera molto interessante che, date le premesse, ho deciso di pubblicare affinché ognuno di voi possa trarre le proprie conclusioni e, se necessario, offrire dei consigli.
Vi riporto di seguito la missiva.



“Gent.ma Blogger Acunamatata2000,
è con somma umiltà che oggi le scrivo questa lettera per metterla a conoscenza di un evento tanto drammatico, quanto fastidioso che, impostosi nella mia vita solitaria mi costringe a venir alla scoperto per rivolgerle alcune domande.

Visto

· che per trenta anni l’ho sempre sopportata con stoicismo e stacanovismo, aiutandola ad ingurgitare cibi la cui qualità, talvolta, è stata decisamente dubbia;
· che, talvolta, ho dovuto sopportare il peso di terribili irritazioni perché lei ha pensato bene che se è vero che una patatina alla paprika tira l’altra, tanto vale mangiare due pacchetti di fila;
· che, ignorando completamente la mia esistenza, non si è mai posta il problema di capire che differenza ci fosse tra me e mio cugino detto “Molle”;
· che, quando ancora piccini, l’ho più volte aiutata a nascondere la ciunganbell (come dice suo figlio) dallo sguardo indiscreto di qualche maestra incazzata. A tal proposito, vorrei ricordarle che stavo ore con quel pongo comodamente steso su di me a mo’ di copertina di pile.

Chiedo:

· di comprendere quale strana fantasia l’abbia spinta a prendere delle stravaganti iniziative che, guarda caso, risultano d’ingombro solo al sottoscritto;
· di capire se, almeno per un attimo, si sia chiesta se io potessi essere d’accordo con lei o meno dato che il problema, in fin dei conti, sarebbe stato solamente mio;
· di sapere se, prima della decisione finale, abbia provato a sperimentare sulla sua pelle la claustrofobica sensazione che può provocare un siffatto provvedimento.
(A tal proposito, la inviterei a tenere per dodici ore consecutive un pannello di plexiglass teneramente appiccicato sulla sua guancia. Mi faccia sapere come si sta?)

Infine,

avendo trascorso 30 anni e 10 mesi in sua compagnia, mi sento di dirle che, pur condividendo la sua stessa passione per i viaggi oltreoceano,
non riesco minimamente a comprendere l’esigenza di utilizzarmi quale Hangar per il suo nuovissimo Apparecchio!
Mi permetta di dirle che non è proprio piacevole dormire sotto la pressione di un tappo chiuso male. Quella saliva, poi! Quel risucchio!
Inoltre, se si chiama “Apparecchio odontoiatrico” perché me lo devo sorbire io? Se mi avessero voluto degnare di considerazione allora, quantomeno, avrebbero dovuto dargli un nome tipo “Palatino”, “Palatello”, “Palatecchio…il mio amico appalecchio”(tipo “Pisolone, l’orsetto dormiglione”).
E poi, mia cara Blogger, una cortesia! Ogni volta che decide di torturarmi, la smette di cantare quegli odiosissimi versi? Come fanno? “Ai biliv Ai chen flaiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!”
Se davvero sa volare, un consiglio: Salga sul suo fiammante aeroplanino e voli via verso mete inesplorate. Via!Via! Verso l’isola che non c’è … dai furboni come te! E, ovviamente, stia attenta a non precipitare!
Con affetto.
Mr Palato

lunedì 14 gennaio 2008

Di ritornooooooooooooooo

Amici miei cari,

non è che ho abbandonato il mio/nostro blog. La verità è che, per una settimana circa, la mia famiglia è stata tenuta in ostaggio da un manipolo di manigoldi che firma i propri comunicati con l’acronimo B.d.V., Banda del Virus.

Non so per quale motivo abbiano scelto proprio noi. Forse, dopo aver letto il mio resoconto del 2007, ed onde evitare che ci rilassassimo troppo, hanno deciso di regalarci momenti di Puro Sbattimento.

In compenso, dato che di ogni arte ho imparato a farne virtù, sono riuscita a comprendere e mettere in pratica la magica arte dei giocolieri. Non è così semplice reggere una bacinella anti-vomito con una mano e, con l’altra, stendere un lenzuolo matrimoniale.

Lorenzo, il più coinvolto (e non solo emotivamente!), è stato quello che più di tutti si è calato nel ruolo.

Poche persone, soprattutto se di sesso maschile, dimostrano di possedere quella rara abilità che consente loro di dedicarsi a più attività contemporaneamente.

Il piccolo, invece, a dispetto di questo luogo comune, ha dimostrato delle doti nascoste in grado di lasciare sgomento l’intero mondo umano.

La prima notte, infatti, è riuscito a dar vita ad uno spettacolo che nemmeno la B.d.V. pensava fosse possibile.

Il numero di evacuazioni, infatti, avrebbe potuto suscitare l’invidia finanche della bambina protagonista del film “L’esorcista”.

Una bacinella sopra, un pannolino sotto e il gioco è presto fatto!

Approfittando della situazione, ad un certo punto, io ed Ale abbiamo pure deciso di provare ad entrare nel guinness dei primati: tre lenzuola matrimoniali con angoli in trenta minuti, cinque boy in venti e, una quantità di pantaloni da tuta degni della nazionale di calcio, riserve incluse!

I componenti della banda hanno dimostrato do essere dei tipi veramente tosti. Non contenti della totale adesione di Lorenzo alla loro causa, infatti, hanno deciso che anche io ed Ale dovessimo offrire l nostro contributo.

Sotto la minaccia di armi potentissime, così, la terza mattina ci siamo ritrovati tutti e tre a letto e malati.

Un lazzaretto sarebbe stato sicuramente un posto più adatto.

Ormai eravamo diventati quattro: noi tre più la bacinella che, nel giro di qualche giorno, ha preso così tanto a cuore la nostra storia da non volere più lasciarci soli.

Il problema della bacinella, comunque, è stato solamente uno: Lorenzo.

Il piccolo, infatti, terrorizzato dall’incontenibile fiume in piena che, allo scoccare dei dieci minuti esatti (cronometrati per via del guinness), straripava dalla sua boccuccia, ad un certo punto, ha deciso che si spaventava della nostra paziente amica.

La sua testolina ingenua, probabilmente, si è convinta che la causa di tutti i suoi mali fosse da ricercare nella presenza inquietante di quel contenitore bianco.

Di conseguenza, se al primo colpo di tosse (solo alle cinque del mattino abbiamo compreso che trattavasi di vomito imminente!), io ed Ale scattavamo in piedi passandoci la bacinella; Lorenzo, dal canto suo, cominciava a roteare la testolina a destra e sinistra. Comunque, sempre dal lato opposto rispetto al contenitore.

Ne consegue che, più volte, ci siamo ritrovati a fare una sorta di partita di volano. Al posto della retina la bacinella; al posto della pallina … spazio all’immaginazione!

Ma voi vi chiederete: “Come mai tutto questo tempo?”

A questo punto rientra in gioco la B.d.V.

Questa, infatti, onde evitare che qualcuno dei tre si desse alla fuga, sin dalla prima notte, ha deciso di legare saldamente il mio corpo a quello di Lorenzo.

Con il passare delle ore, tuttavia, si è attivato quel processo particolare che in campo agricolo prende il nome di Innesto.

Se unite un arancio ad un mandarino, cosa otterrete? Un mandarancio.

Se unite Lorenzo alla sua mamma, cosa otterrete? Una nana con due teste.

E’ stato come se il corpicino di Lorenzo, a causa del costante contatto dei nostri corpi, avesse deciso di mettere le radici facendo in modo che queste attecchissero direttamente nel mio stomaco, dalle parti dell’ombelico.

Con il passare dei giorni, visti da un osservatore esterno, dovevamo essere più simili ad un Koala placidamente avvinghiato ad un Eucalipto. Lo coccola? No. Lo divora piano piano, lentamente.

Ne consegue che scrivere non solo sarebbe stato impossibile, ma utopico.

Il problema, comunque, non è stato rappresentato dall’impossibilità di comunicare con voi, quanto da tutto il resto che, per una settimana abbondante, mi è stato rigorosamente vietato. In ordine, non ho potuto fare le seguenti cose: parlare, alzarmi dal divano ( a memoria perenne vi è rimasta la mia sindone), mangiare, bere, telefonare, fare pipì, guardare la televisione, ridere o sorridere ( a parte l’isteria, comunque, non c’erano validi motivi per farlo!) e, dulcis in fundo, fargli le coccole.

Sì. Avete capito bene. Non potevo nemmeno coccolarlo.

Il parallelismo tra me e l’eucalypto, a questo punto, non deve sembrarvi per nulla esagerato. Per una settimana ho semplicemente vegetato!

Per concludere, andata via la B.d.V. (se qualcuno bussa alla porta nei prossimi cinque minuti, vi prego, non aprite!), stamattina al risveglio mi sono sentita felice come non mai.

Alle sette e trenta 250ml di latte hanno augurato il buongiorno al mio piccolo superstite il quale, piangendo nel vano tentativo di convincermi che oggi fosse sabato (leggasi: non c’è asilo), è stato vestito di tutto punto e, con l’ultimo briciolo di tolleranza rimastami in corpo, accompagnato alla porta.

“Oggi è Lunedì. La settimana è costituita da sette giorni. Il Sabato e la Domenica non si va a scuola. Ne deriva che, tenuto conto del fatto che sei guarito perfettamente, andrai in quel fottutissimo asilo e ti divertirai pure!”

Tutto ciò, ovviamente, l’ho solo pensato mentre le mie labbra, con un sorriso più simile ad un ghigno, baciavano quell’ometto che, piangente, andava tra le braccia del suo papà.

Per i successivi dieci minuti (tragitto da casa nostra all’asilo) sarebbero, indiscutibilmente, inevitabilmente, -ente, -ente, -ente, stati CAZZI SUOI!

Noi. Dov’eravamo rimasti?

giovedì 3 gennaio 2008

Brillante...parte Nona


Dal fondo allo…sprofondo!

“Cos’è il fondo se non una vetta vista dall’alto?
Cos’è una vetta se non un fondo visto dal basso?
Cosa sei tu, Oh Mio Ardor, se non un pacco…
Vuoto?

Tu, tu che di promesse mi facesti dono
Tu, tu che di “brillante” mi facesti decoro
Tu che a camminar per perigliosi lidi
M’invitasti perché al fin la Verità trovassi…
Tu che ti diletti ancor
Ad illudermi che una vetta mi attende or’ or’
Cospargimi dell’aulente alloro del grande dio
E lavoro concedimi che sia di brio.

Verità nasconde sotto le vesti
Colui che sa che dei suoi gesti
Poco importa, se pur brillanti,
se son privi di diamanti…
Cos’è il fondo se non una vetta vista dall’alto?”

Se fossi vissuta qualche secolo fa quando ancora non veniva riconosciuta alla prosa pari dignità letteraria della poesia o del teatro, sicuramente, questi toccanti versi sarebbero potuti appartenere a me.
Nulla di più vero nel dire che “un fondo altro non è che una vetta”. Soprattutto se si tengono in considerazione le mie successive esperienze lavorative.
Se mi chiedessero di tracciare una sorta di grafico che possa, in qualche modo, rappresentare l’evoluzione della mia carriera professionale, direi che ne verrebbe fuori una sorta di ciclo nel quale il punto iniziale e finale, per ovvi motivi, coincidono perfettamente.
Dunque, per comodità letteraria, lasciate che li chiami Punto “P” dove P, ancora una volta sta per “pecorina” e non per il più elegante “Principio”.
Il principio di tutta questa vicenda, invece, può essere considerato quello secondo cui, fatte salve alcune rare eccezioni (contraddistintesi comunque per altre simpatiche peculiarità), ad ogni esperienza corrisponde una “giovane azienda recentemente affacciatasi nel mondo dell’imprenditoria”. In altri termini, si potrebbe parlare d’inserimento in un “simpatico circolo di avvoltoi, molti dei quali giovani al limite nello spirito, disposti ad investire sui propri progetti a spese (nel senso prettamente economico) di altrettanto talentuosi giovani il cui unico neo è quello di non possedere la necessaria quanto bizzarra fantasia imprenditoriale.
Una delle cose che, negli anni, colpì la mia attenzione fu che tra coloro i quali amavano spacciarsi per “giovani imprenditori” (etichetta che, a quanto pare, offre una giustificazione valida al lavoro sottopagato) potevano annoverarsi uomini sull’orlo dell’andropausa e donne di poco più giovani del vecchio amico Matu. Sì, colui che di cognome fa Salemme.
Ho incontrato dunque: la GIOVANE edicolante sessantenne; i GIOVANI titolari di un’agenzia di viaggi dove il più giovane aveva cinquant’anni; il GIOVANE imprenditore di investimenti in arte, pluricinquantenne e in compagnia del direttore generale che, data la tenera età, a questo punto, dovrebbe essere già morto.
A tal proposito, vorrei aprire una piccola parentesi per raccontarvi qualche piccolo aneddoto riguardante gli ultimi due che, per comodità letteraria, chiameremo: Siete e Grandi.
Ad esempio: Grandi, brutta copia di uno dei miei folletti, era un omino piccino piccino. O, quantomeno, lo era diventato a causa di quel simpaticissimo fenomeno grazie al quale, con l’avanzare dell’età, il nostro corpo comincia ad accartocciarsi su se stesso, finendo col reggersi sul naso e sulle orecchie (uniche parti che continuano a crescere).
Io, per esempio, sarò terrificante: una sorta di gomitolo infeltrito (data l’enorme quantità di capelli) con due enormi fessure sporgenti dall’estremità superiore. Le mie narici.
Grandi aveva anche un simpatico peluche accovacciato sulla testa ed era molto curioso osservare, nell’arco della giornata, le diverse posizioni che quel batuffolo di pelo riusciva ad assumere. Soprattutto quando soffiava un forte vento. Mi sembra di ricordare che il suo nome fosse qualcosa tipo Ino Parruch (di origine catalana).
Grandi, inoltre, era affetto da quella malattia che, in genere, sembra colpire la popolazione femminile: la Logorrea.
Per questo motivo, Grandi parlava, parlava, parlava e parlava. Poiché ero pagata per fargli da interprete (era spagnolo), se ne deduce che anche io parlassi, parlassi, parlassi e parlassi.
Tuttavia, i veri problemi cominciarono a sorgere allorché decise d’intrattenere i suoi interlocutori con delle esilaranti barzellette.
A questo punto, va detto che, sempre secondo me, le persone-prosa e le persone-poesia, a loro volta, si dividono in persone-barzelletta e persone-non barzelletta.
Al primo gruppo appartengono milioni d’individui perché se è vero che, tempo fa, dedicarono loro un’intera trasmissione televisiva; è pur vero che, nel caso del secondo gruppo, non si è mai parlato nemmeno nelle trasmissioni mandate in onda alle quattro del mattino.
A quanto pare, fanno più audience i risolutori di problemi di matematica e fisica: simpatici omini, affetti da evidenti disturbi del sonno, cui piace spiegare alle quattro del mattino perché, ad esempio, se il vettore v non s’interseca con il punto d, ci si trova dinanzi ad un chiaro caso di moto vuoto continuo. “Vuoto” come il mio cervello quando, in preda ai morsi della fame notturni e in totale balia di un barattolo di nutella, ha provato a dimostrare loro tutta la sua ammirazione.
Ritornando alla questione barzellette, dunque, risulta ovvio che appartengo al secondo gruppo.
Io, non solo odio con tutta l’anima le storielle “esilaranti”, ma non tollero nemmeno chi le racconta.
Mettiamo il caso che venga invitata a Stoccolma in occasione della proclamazione del nuovo Premio Nobel per la Letteratura. Se questi, per un motivo qualunque, dovesse decidere di cominciare il suo discorso di ringraziamento con parole tipo: “Un americano, un siciliano e un francese si trovano su un elicottero, etc…etc…”, in automatico, si materializzerebbe tra le mie mani una sorta di fionda gigantesca (chiamatela catapulta se lo preferite) e, mentre il mio viso accenna un sorriso, le mie dita si sbizzarrirebbero in lanci di palline infuocate direttamente sul suo viso. Palline infuocate e puntine da disegno.
Io odio le barzellette. Mi hanno fatto più ridere le espressioni di alcuni in occasione di veglie funebri, piuttosto che sapere che “un tizio è stato costretto a mostrare la fotografia del proprio sedere affinché un addetto alle vendite, del reparto sanitari, accettasse di mostrargli i cessi”.
Ma, purtroppo, le barzellette dovetti ascoltarle e raccontarle. Con Grandi, infatti, la situazione era la seguente:
Grandi mi raccontava una barzelletta in spagnolo. Io, ipocrita all’ennesima potenza, abbozzavo un sorriso prima di riproporla, in italiano, agli altri.
In tutto ciò, Grandi continuava a mantenere lo sguardo fisso su di me in attesa della scrosciante risata degli astanti.
Sebbene, in un primo momento, una delle mie più grandi preoccupazioni fosse quella di non riuscire a suscitare le risa di chi, paziente, attendeva le mie esilaranti traduzioni; ben presto, presi coscienza del fatto che, dinanzi al Direttore Generale, chiunque, me compresa, avrebbe riso anche se avessi comunicato che, in realtà, Grandi era il padre di tutti noi.
Che dire di Siete?
Siete lo ricorderò per sempre per il livello di stupidità che non pensavo un uomo potesse raggiungere. Siete non era uno stupido. Era LO STUPIDO.
Ricordo che, a seguito di un battibecco, chiesi ad Ale di ritirare, al mio posto, un assegno giacché non avevo alcuna intenzione d’intavolare una qualsiasi conversazione con quell’esemplare di idiozia.
Non rientrando nella mia natura delegare gli altri, Ale capì che, in quel caso, sarei stata assolutamente irremovibile.
A venti minuti dal loro incontro ricevetti una telefonata di Ale il quale, abbastanza perplesso, mi chiese se fossi a conoscenza della stupidità esponenziale di quell’uomo.
Per meglio comprendere vorrei spiegare che, all’inizio della nostra collaborazione, io e Siete decidemmo che la compagnia mi avrebbe pagato un tot a prestazione, indipendentemente dalle ore lavorative.
Così, ci furono giorni in cui lavorai tre ore e giorni, la maggioranza, nei quali lavorai circa quattordici ore consecutive.
Il problema sorse allorché Siete, assicurandomi di aver fatto le giuste ricerche, mi comunicò che il prezzo pattuito non andava più bene giacché quel tipo di prestazione prevedeva un pagamento calcolato in base alle ore lavorative.
In un primo momento, con estrema dolcezza, cercai di fargli capire che, sicuramente, aveva attinto alle fonti sbagliate. Poiché il mio amico continuava imperterrito ad affermare che io lo stessi truffando, lo invitai a prendere una calcolatrice e fare il conto sulla base delle effettive ore lavorative e, soprattutto, in base alla tariffa che lui diceva di aver trovato.
Il risultato? In poche parole, avrebbe dovuto darmi circa duemila euro in più.
A quel punto Siete mi disse, più o meno, le seguenti cose:
“Non può essere. Dev’essersi rotta la calcolatrice!”;
“Non può essere. Sono sicuro delle tariffe lette. C’è qualcosa che non quadra! (A questo punto avrei dovuto dirgli che quel “qualcosa”, guarda caso, portava proprio il suo nome!);
“Ma non dobbiamo mica contare le cene! Lì hai mangiato e ti sei pure divertita!”
Su quest’ultimo punto, già ampiamente discusso, è inutile aggiungere altro.
Una settimana dopo, Siete consegnò il tanto dibattuto assegno ad Ale. La tariffa, ovviamente, teneva conto della prestazione e non delle ore.
Inutile dire che, da allora, non ebbi più notizie di Siete disintegratosi e dissoltosi con un meteorite a contatto con la mia atmosfera. A me, in compenso, rimasero i buchi!
Grandi, dal canto suo, continuò a scrivermi delle bellissime e-mail nelle quali, dato il mio essere brillante, mi esortava ad abbandonare tutto e tutti per trasferirmi a Madrid e lavorare assieme a lui.
Un giorno, senza alcuna precedente avvisaglia, fu il silenzio.
Si dice che nelle notti di luna piena, dalle parti del Retiro (versione madrilena, ingrandita ed abbellita, del Giardino Inglese di Palermo), altri giovaniimprenditori vedano un batuffolo di pelo vagare, mugolante, alla ricerca del suo amato padroncino.

mercoledì 2 gennaio 2008

Tiriamo le somme...sempre meglio delle cuoia!

Ieri sera, dopo aver offerto il mio contributo al cenone di fine anno e, dopo appena cinque ore d’immersione in un wok dalle dimensioni stratosferiche tra micro-peperoni, micro-melenzane e quintali di curry, ho potuto fermarmi un secondo per fare il riepilogo dell’anno che stava per giungere al suo termine.
E’ giusto così. Lo dovremmo fare tutti. Ognuno scelga il momento più adatto.
Mentre tonnellate di mutande rosse trattenevano, coccolavano o stritolavano le vostre grazie, io vi dico che, mai e poi mai le avrei indossate il giorno d San Silvestro il quale, sarà stato pure un martire ma, a me evoca il gattino simpaticissimo avversario di quella rompi palle, viziata e dalla voce ridicola di Titti.
La mia avversione per le mutande rosse non è nata con me ma, anni fa, bastarono pochissime ore perché la serata simbolo ed emblema di tutto ciò che il nuovo anno riserva ad ognuno di noi si trasformasse in una sorta di cataclisma che, inevitabilmente, mi portò ad una rottura definitiva con il delizioso capo intimo.
La cena organizzata dai miei genitori con tanto di parenti ed amici, infatti, si trasformò in qualcosa di più simile alla “vampata di San Giuseppe” che, ormai nei quartieri popolari, dà luogo ad un mega falò che inevitabilmente finisce con l’intervento dei pompieri.
Ma quella notte, i pompieri a casa dei miei non arrivarono perché fortunatamente c’era molta gente sveglia e in gamba che seppe porre rimedio ad una catastrofe sfiorata.
Avevamo acceso delle belle candeline rosse, quelle che portano bene, indossavamo delle bellissime mutande rosse, quelle che portano più che bene, quando la maglietta- pecora che una delle mie zie aveva deciso d’indossare per salutare il nuovo anno per poco non si trasformò in un’estrema unzione che sarà pur sempre un saluto, ma decisamente definitivo.
Mia zia. Mia zia doveva averla scelta con cura tra i suoi abiti dell’occasione: era il cadavere di una pecora sintetica a pelo lungo, così piena di luccichini che per guardarla era necessario schermare gli occhi con delle lenti molto scure.
Fu proprio colpa della lunghezza di quel pelo se tutti i buoni propositi che avevamo riversato nelle nostre mutande rosse, improvvisamente, andarono in fumo. Nel vero senso della parola.
La zietta, infatti, non avendo calcolato l’ingombro sterico del suo braccio decise di coccolare l’innocua fiammella della ben augurante candela con uno dei peluches pendenti dall’elegantissimo capo.
In una frazione di secondo la pecorella si rianimò di vita propria trasformandosi in un emozionante falò di fine anno: prima il gomito, poi la spalla, infine tutto!
Mentre la zia si dimenava sperando che qualcuno tra i presenti intervenisse in suo soccorso, i suddetti si allontanarono repentinamente da quella simpatica torcia: chi scappò verso un’altra stanza, chi si mise con le spalle al muro con le braccia spalancate e chi, più coraggioso rimase immobile nella stessa posizione perdendo completamente il controllo del proprio mento che, sotto il peso dello stupore, arrivò quasi a strisciare per terra.
Io, non feci più degli altri ma, per un motivo a me ignoto, la mia mente si preoccupò più di registrare le reazioni di tutti i testimoni piuttosto che fare qualcosa di realmente valido per soccorrere la povera zietta.
Ad un certo punto, mentre la zia- torcia continuava a dimenarsi dando vita ad uno spettacolo che, esclusa la questione prettamente umana, aveva un suo fascino per quell’ondulare della fiamma in aria, qualcosa accadde.
Gli ospiti, infatti, cominciarono a trasformarsi in personaggi dei fumetti e, secondo me, qualcuno pensò di poter realizzare uno dei sogni dell’infanzia rimasti inespressi sotto la pressione di una realtà più concreta. Ci fu, infatti, un pompiere che decise di spegnere il fuoco gettando addosso alla povera zia il contenuto di tutti i ben auguranti bicchieri rossi dando vita, a quel punto, ad un altro spettacolo tipo: “la magia della chimica: saggi alla fiamma” in dipendenza del liquido contenuto nei bicchieri.
Poi, bellissimo, ci fu anche un prestigiatore che decise di soffocare la fiamma con la tovaglia da tavola, anch’essa rigorosamente rossa, sfilandola senza far cadere tutti i piatti, vassoi, bicchieri e candele che giacevano su di essa. Almeno questo era nelle sue intenzioni…I piatti, al limite, rimasero in bilico sul tavolo!
Infine e per fortuna, provvidenziale e decisivo, arrivò l’intervento di mia madre.
Avendo udito le urla della zia e, probabilmente raggiunta dall’acre odore della plastica bruciata (la pecorella), decise di capire cosa stesse accadendo. Per me, ancora una volta, fu sorprendente osservare la delicatezza della mia progenitrice nello sfilare la maglietta alla zia torcia, soffocare contemporaneamente la fiamma e prendere il corpo della suddetta per accompagnarla in bagno in modo tale da farla riprendere dallo shock. Uno ad uno dovette accompagnarci tutti.
Per chi si stesse chiedendo cosa ne sia stato della povera zia, aggiungo che non si fece assolutamente nulla sul piano fisico. Alla pecorella, invece, fummo costretti a dare il nostro addio riponendo le sue ceneri in un sacchetto condominiale nero dove, come con le mummie, mettemmo anche oggetti di un certo valore: la miccia della candela rossa, un quintale di bicchieri rossi, due tonnellate di tovaglioli. Per il resto, affidammo tutto all’Amia.
Ritornando al 2007, fu proprio quella sera che intuì che non sarebbe stato saggio, negli anni successivi, affidare il futuro della mia esistenza ad un perizoma rosso che, di certo, non mi avrebbe portata molto lontano.
In conclusione, ieri sera le mie mutande erano rigorosamente nere. Nere come il carbone che, a breve, sarò costretta a distribuire sorvolando sulla mia splendida città a bordo della mia scopa…elettrica.
Per la prima volta, dopo una tradizione decennale, allo scoccare della mezzanotte non ho versato una sola lacrima. Perché piangere?
In fin dei conti, avevamo appena avuto la certezza di essere sopravvissuti ad un anno dai risvolti melodrammatici.
Le influenze di Plutone su Marte i quali, a loro volta, hanno potuto godere della compartecipazione di pianeti fino a poco tempo fa ignoti, quali Saturno, Sempronio e Sfiganio, si sono fatte sentire decisamente.
Il 2007 non è stato l’anno dell’Acqua, del Fuoco, dell’Aria o della Terra. E’, più semplicemente, stato l’anno del Delirio.
I sani di mente che fino al 31 Dicembre del 2006 avevano bazzicato nella nostra vita, si sono trasformati in psicotici dalle personalità multiple tendenti al ridicolo.
Gli egocentrici in posseduti da entità male…fiche nascoste.
I filosofi in veri e propri Guru di dubbia qualità.
Direttori, Professori e molti altri “ori” (tra cui qualche PHD), in preda a deliri di onnipotenza, hanno pensato di poter giocare con le nostre vite come se si trattasse di una normalissima partita a Taboo: “Soldi”… “Peeeeeeee! Non si può dire”; “Telefonate” … “Peeeeeee! Non si può dire!”; “Unità operativa!” … “Peeeeeee! Non si può dire!!; infine, “Copiare”… “Questo non si dice ma si fa! E speriamo che Ghigo ce la mandi buona!”
Dio? Mi dite che si dice Dio? Sì, lo so. Ma questo vale per il pianeta terra.
Sul pianeta dal quale alcuni di loro provengono, Boomerang (perché “Chi sputa in Cielo, in faccia torna!), Ghigo è l’entità suprema: un orsetto il quale, avvertita una certa pressione sul suo pancino, ti ringrazia con un sonoro piritino.
Per finire, sotto l’influsso di stelle particolarmente luminose, Sirio, Mirio, Tirio e De…Lirio, alcuni segni zodiacali, con ascendente in Giuggiole, hanno dovuto fare i conti con energie e influenze per le quali nemmeno il più potente dei vaccini sarebbe stato d’ aiuto.
Qualcuno ha scoperto di essere le reincarnazione di Colombo (l’ispettore);
qualcun altro si è trasformato in avvocato dalle cause…perse; chi ha scoperto una profonda passione per personaggi della fantasia optando, per altro, per quelli più sfigati tipo Winny, Tigro e l’allegra compagnia del bosco delle tristezze infinite. Io, addirittura, ho dato vita a questo blog facendo finta di essere una scrittrice di fama internazionale (soprattutto da quando so che mi si legge in Canada ed in Germania!).
Dunque, volendo tirare le somme dell’anno appena trascorso, già fatte le dovute premesse, mi sento di poter affermare che se sono sopravvissuta è stato grazie ad un paio di cose belle:
1. Mi sono Laureata alla faccia di chi avrebbe scommesso il contrario;
2. Mio figlio mi ha detto un migliaio di volte di volermi bene “tanto, tanto quanto il…tetto”;
3. Ho potuto fare un paio di viaggi con i due amori più grandi della mia vita;
4. La casa non si è allagata nemmeno una volta;
5. Mio marito non è impazzito ed è pure diventato famoso;
6. Infine, so con certezza che 2+2 fa 4 e almeno questo non è cambiato!
Amici miei, quelli veri questi volta, BUON ANNO anche a voi e, come ho avuto più volte modo di dire ieri sera IN BOCCA AL LUPO a tutti quelli che in questo 2008 ci credono dal profondo dell’anima.
A Tata che se ne va in Germania e mi lascia sola con le mie visioni; A Fabrizio e Cinzia che chiudono il negozio e riprenderanno fiato; a mia madre che continua a prendere lezioni di nuoto a dimostrazione del fatto che nella vita c’è sempre tempo per imparare; a me ed Ale che aspettiamo fiduciosi di sapere che da qui ce ne possiamo andare verso un futuro più radioso…A tutti voi che non mi avete confidato i vostri propositi ma che, di certo, ne avete tanti!
Ricordiamo: “L’Anno che sta arrivando, fra un anno se ne va!”...E che Ghigo ce la mandi buona!