Da quando sono venuta al mondo ho sempre subito il fascino prepotente e sensuale del Viaggio. Bastò quel primo breve tragitto dal ventre materno alle mani dell’ostetrica, passando per lo stretto di Vagilmamma, perché comprendessi appieno l’importanza di questo tipo di esperienza.
Il viaggio, da sempre metafora della vita, racchiude in sé un simbolismo tale da essere riuscito a mandare in visibilio milioni di scrittori. Chi viaggiava per davvero. Chi faceva finta di aver viaggiato. Chi desiderava viaggiare verso magiche terre dell’utopia. Infine, chi viaggiando viaggiando è riuscito a incontrare persino gli Houyhnhnms[1], popolazione di gran lunga preferibile a quella del campeggio nel quale ho avuto l’onore di lavorare.
A questo punto vi chiederete se il folletto Geo&Geo si sia impossessato di me dato che, parlando di esperienze lavorative, mi sono lasciata andare alla riflessione più profonda di tutto l’intero capolavoro.
No. Tranquilli. Geo avrebbe voluto parlare ma data l’ora l’ho appena mandato a comprare il pane assieme ai folletti Mafalda e Quartino.
La lunga introduzione nasce, in realtà, dal desiderio di rendervi partecipi di altre due esperienze lavorative sperimentate sulla mia pelle. State tranquilli perché saranno le ultime due.
Causa “volontà di non perdere qualche amico”, raccontando verità a sproposito, la mia dimostrazione dell’essere una persona tanto Brillante quanto sfigata sta per giungere al suo termine. Il resto sarà storia: nel secondo volume.
Cosa può fare una persona che ama così tanto andare alla scoperta di mondi ignoti? Le opzioni sarebbero tre:
1) Viaggiare
2) Far viaggiare e sorridere di riflesso
3) Andare a fare una passeggiata in uno dei mercati rionali: è economico, folcloristico e se non si ha dimestichezza con il dialetto, non si capiranno molte delle battute.
Volendo capitalizzare la mia passione, nella speranza di poter continuare a praticarla, un giorno decisi di cominciare a lavorare nelle agenzie di viaggio: centro nevralgico dell’intera organizzazione, quando ancora il nome Internet faceva pensare al cugino del Vermut.
“Gradisce un po’ di Internet?” disse il cameriere. “No, grazie. Prenderò del limoncello!” rispose il cliente.
Quando manifestai questo mio desiderio, immediatamente, mi sentii dire che il lavoro presso un’agenzia di viaggi prevedeva un primo stage e, solo dopo aver acquisito dimestichezza col mestiere, una sorta di reclutamento a “buon rendere”.
Non avevo nulla da perdere. Accettai di buon grado quell’esperienza che, un giorno non troppo lontano, mi avrebbe consentito di unire alla mia laurea in lingue anche il tirocinio: sarei potuta andare, dunque, in prigione senza passare dal via.
In realtà, prima di raccontarvi della mia prima esperienza di “addetto alla biglietteria nazionale ed internazionale”, vorrei parlare della seconda volta.
A tal proposito vi dico immediatamente che fu un totale fallimento. Non saprei dire cosa sia accaduto nel momento esatto in cui varcai la soglia di quell’ufficio. Fu come se tutti i miei neuroni avessero deciso all’unisono di aspettarmi in macchina. La storia dell’essere brillante, immediatamente, si trasformò in leggenda metropolitana.
Fu black-out.
Il solo rispondere al telefono mi metteva ansia. Accendere il computer per vedere quali meraviglie si profilavano davanti ai potenziali viaggiatori, un’odissea.
In realtà, le cose non andarono esattamente così. E’ più probabile che sia io a percepirle in quel modo.
La proprietaria dell’agenzia, infatti, non credo avesse molta intenzione di assumere nuovo personale quando il marito, di tutt’altra natura, mi offrì quel posto. Sin dal primo giorno, infatti, parlare di ostilità nei suoi occhi sarebbe stato solo un eufemismo per descrivere un ben più complesso atteggiamento di rifiuto. Devo dire: tipicamente femminile.
Era un po’ come la storia della donna che cerca di minare il tuo rapporto col marito: non si esporrà mai con lui, ma subdolamente s’insinua come il più viscido dei vermi.
Sì, noi donne siamo così. Perverse, contorte e, devo aggiungere, assolutamente consapevoli dell’ingenuità o superficialità dei nostri ometti. Costoro, infatti, totalmente assorbiti dalle classifiche di calcio e dall’ammirazione per Rocco Siffredi, spesso dimenticano di guardarsi attorno e, soprattutto, di guardare oltre.
Capita spesso di sentire dire al proprio compagno, in riferimento alla iena di turno,: “Ma come?!!!!! Lei dice che sei troooooppooooo simpatica! Noi parliamo sempre di te.” A quel punto non ci restano che due strade: 1) trasformarci in belve feroci. Non si richiedono eccessivi sforzi; 2) fare lo stesso gioco della viperetta insinuatasi nel tuo rapporto di coppia e lasciarti andare a un panegirico in onore della simpatica signorina.
Se prendiamo in considerazione la prima possibilità, dobbiamo essere assolutamente consapevoli dei rischi ai quali andiamo incontro. L’uomo, infatti, per sua natura sfugge tutto ciò che gli risulta problematico.
Se dovesse decidere di mettere da parte il suo piccolo svago a seguito della vostra sfuriata isterica, state pur certi che lo farà solo perché non è più disposto a convivere con la reincarnazione di un Pitbull idrofobo. A quel punto, non solo vi odierà con tutta l’anima perché avete osato disturbarlo in piena partita di calcetto a due; ma, soprattutto, vi punirà con silenzi d’oltretomba e tradendovi mentalmente con la viperetta.
Nel secondo caso invece, il quale richiede un’ottima capacità di auto controllo e recitazione, è più probabile che sia lo stesso maritino a stancarsi, e quindi a buttare nella spazzatura l’immagine della iena e tutte le fantasie erotiche che la vedevano quale co-protagonista del suo bellissimo film.
Io, con grandi difficoltà, sono una seguace della seconda scuola di pensiero: distruggo le nemiche con l’attesa, la simpatia, l’assoluta disponibilità ad accoglierle in famiglia in veste di concubine. Fortunatamente non hanno mai accettato la proposta.
Non ci credete? Una sera, non troppo lontana nel tempo, fummo invitati ad una cena. Non ci volle molto a capire che ero stata prescelta quale ingenua della situazione. Mettendo da parte il fatto che fummo accolti dalla padrona di casa con addosso un elegantissimo reggiseno, ad un certo punto una dei convitati mi disse: “Io vorrei dare dimostrazione delle mie capacità sessuali con tuo marito”. A quel punto avrei potuto alzarmi, offenderla, obbligare mio marito ad andare via da quel covo di ninfomani. Invece?
La mia risposta fu secca, decisa ed inaspettata: “Certo. Non ci sono problemi. A patto che tu mi faccia assistere. Mi eccitano questi giochi di gruppo”. Conclusione?
I ghigni sui volti dei presenti si trasformarono in boccucce di rosa aperte per lo sgomento. La mia proposta non venne accettata e per il resto della serata si parlò solo di problematiche coniugali e difficoltà sul lavoro. Noia mortale! Fine degli inviti.
Volendomi scusare per il lungo excursus, e ritornando alla fallimentare esperienza in agenzia vi dico che la moglie del titolare rientrava a pieno titolo nella nomination a “Vipera subdola, cesso esemplare, ipocrita imbattibile e Yorkshire idrofobo”.
Dal canto mio, non nutrendo alcun interesse per suo marito, avevo serie difficoltà a dimostrare le mie capacità lavorative in un ambiente così ostile. Trascorrevo le mie otto ore in ufficio alla ricerca di un modo per farle capire che mi trovavo lì per imparare.
Non avevo speranza. Per quanto mi sforzassi di non farla sentire minacciata dalla mia presenza, ogni tentativo di avvicinamento risultava assolutamente vano. Immagino che nella sua mente mi avesse catalogata nella categoria “stronze simpatiche”.
Un giorno, addirittura, le chiesi espressamente se avessi fatto qualcosa di molesto nei suoi confronti. Nel qual caso, le avrei chiesto scusa. Poiché lo feci davanti al marito, la stronza non poté certo dirmi di sì.
In conclusione, la situazione era diventata talmente tesa che il semplice sistemare i depliants era diventato impossibile. Una sorta di morbo di Parkinson aveva preso pieno possesso delle mie mani.
La situazione era molto simile a quelle vissute un paio di volte ai tempi del liceo. Capitavano dei giorni particolarmente negativi: pur avendo studiato, bastava una semplice parola e il cervello andava letteralmente in tilt. Più cercavo di recuperare la situazione, più sprofondavo nelle sabbie mobili di un “quattro” assicurato.
“Ceingqazsleshzzitpmompx”. Non si tratta né di un errore di battitura, né di uno dei folletti della mia fantasia che cerca di mandarvi un segnale d’allarme in codice.
Furono esattamente quelle le parole pronunciate dalla simpatica datrice di lavoro allorché decise di dimostrare al mondo quanto fossi inefficiente e, di conseguenza, inutile.
Da quel momento i nostri dialoghi, o i suoi soliloqui, si limitarono alla recitazione di codici, formule ed enigmi.
In realtà, alle volte, avevo anche l’onore di sentire la storia della sua tanto sofferta carriera professionale. Ascoltandola pareva di leggere la fonte originale della “Piccola fiammiferaia”: maltrattamenti, sfruttamenti, violenze psicologiche e raggiungimento dei propri obiettivi grazie alla sola forza di buona volontà e intelligenza non pubblicamente riconosciuta.
Con questo non voglio mettere in discussione la sua carriera sofferta. Né tanto meno le sue indiscutibili capacità professionali. Ciò che mi lascia riflettere è solo il fatto che, pur essendo assolutamente consapevole dei torti subiti, non aveva alcun problema a usarmi quale capro espiatorio.
Parliamoci chiaro. Ci sono delle categorie sociali ben precise che se non esistessero renderebbero la vita più semplice a tutti. Secondo una personale classifica, tra i più rompipalle del mondo vi sono:
1. Quelli che “si sono fatti da soli”. Categoria esemplare nel fornire l’elenco di tutto ciò che è riuscita a costruire. Da questi personaggi non si fugge. Un giorno sì e uno no (e tutte le volte che gliene darete l’opportunità) vi ripeteranno l’ordine cronologico della loro scalata sociale. Quel che è peggio è che lo faranno ostentando una falsa tenerezza quando, al contrario, godono nel farvi capire che se non ci siete riusciti è solo perché non valete un micron della loro intelligenza.
2. Gli avari. Spesso ne fanno parte coloro i quali hanno dimenticato quanto doloroso e frustrante possa essere il non vedere riconosciuti i propri meriti.
3. Gli indispensabili. Categoria convinta che il corretto funzionamento della galassia dipenda esclusivamente dalla propria esistenza. Con estremo cinismo mi piacerebbe portarli a fare un giro per i cimiteri della città.
4. Quelli che si demoliscono solo per sentirsi dire che hanno torto. “Sono grasso” … “Ma no! Non sei grasso. Stai benissimo!” “Sono brutto” … “Ma no! Sei così carino!” … “Sono basso” … “Ma dai! Fossi io alta tre metri!”
Sono aperta a tutte le modifiche che vorrete propormi.
Per ciò che riguarda l’amabile datrice di lavoro, mi sembra di poter affermare che rientrasse a pieni titoli sia nella prima, che nella seconda categoria.
Io, dal mio canto, non riuscii a dare il meglio di me perché troppo concentrata a disegnare un profilo psicologico della iena ridens.
Era, inoltre, un periodo della mia vita in cui l’insicurezza regnava sovrana a dispetto dell’immagine che gli altri potessero avere di me.
Decisi di chiudere quella parentesi lavorativa quando capii che non avevo alcuna speranza di riuscita nel tentativo di far emergere il genio che viveva in me. Ma, soprattutto, quando mi resi conto che nonostante gli elogi del marito e della sua collaboratrice, il mio destino era già stato segnato.
Per fortuna, tutte le mie lacune vennero colmate dal suo maggiore passo falso: l’ipocrisia e la cattiva fede.
Nell’arco dell’intero mese, infatti, mi era stato affidato un compito oneroso ed entusiasmante: la collaborazione nell’organizzazione di un convegno. In quello, deu gratias, non avevo avuto alcun problema.
A tre giorni dal suddetto convegno e, soprattutto, a due giorni dalla fine del “mese di prova”, il suo incontro con il consulente fu decisivo. Chiusi in una stanza, infatti, dovevano decidere delle mie sorti. Sentii, nonostante i suoi tentativi di mantenere il tutto segreto, la sua lite furibonda con gli altri tre.
Il marito sosteneva che dovessero tenermi anche se per i viaggi avevo avuto qualche problema. La collaboratrice sosteneva che dovessero tenermi tenuto conto del fatto che il convegno l’avevo organizzato bene. L’ipocrita, invece, disse che ero una persona assolutamente incapace e che per quel poco che valevo, al massimo, avrebbe potuto darmi trecento euro al mese per sei giorni la settimana, otto ore lavorative.
Non fu il denaro a farmi demordere, quanto la consapevolezza che l’eroina dei due mondi, piccola fiammiferaia del nuovo millennio, a domanda esplicita non avesse mai avuto il coraggio di controbattere in base a ciò che pensava di me.
Non sono manie di persecuzione. Il mostro di simpatia, infatti, non ebbe nemmeno il coraggio di farmi la sua proposta, affidando l’arduo incarico al marito.
Quando gli consigliò di farmi rimanere fino al convegno per non togliermi il piacere di portare a termine il lavoro cominciato, non ebbi dubbi.
Tesa come una corda di violino, sì. Imbranata, sì. Stupida, no. Sapevo perfettamente che se me ne fossi andata il giorno esatto della scadenza, avrebbero avuto non pochi problemi a gestire quel convegno del quale nessuno si era occupato. Perché, dunque, avrei dovuto ringraziarli per la proposta di rimanere due giorni in più pur di godere del lavoro che avevo organizzato?
Quando mi rifilarono la storiella di quanto fosse giusto darmi l’onore di occuparmi del convegno, non ebbi alcuna esitazione nel dire loro che, pur ringraziandoli di cuore, ero costretta a declinare l’invito.
Fu come se le parole denigratorie, acide in modo esponenziale, della piccola fiammiferaia avessero attivato quell’interruttore il cui funzionamento si era inceppato un mese prima. Tutto mi sembrò chiaro.
Mi sembrava di vederli i miei folletti della fantasia mentre, uno alla volta, un po’ ammaccatelli uscivano dalla mia mente con lo sguardo perplesso e, soprattutto, in attesa della mia risposta.
Sebbene la proposta mi fosse stata fatta in assenza, assolutamente calcolata, della simpaticona, chiesi la cortesia di aspettarla per darle la mia risposta.
“Dopo un mese assieme, non mi sembra carino parlare senza lei!”, dissi sfoggiando il più tenero ed ipocrita sorriso della mia vita.
All’arrivo di Crudelia, assolutamente ignara della trasformazione che avevo subito nel lasso di tempo della sua assenza, cominciarono delle vere e proprie trattative.
Dopo avermi rifilato la stessa storiella sul desiderio di non togliermi l’immenso piacere di assistere al convegno, la risposta che le diedi fu chiara, netta, odiosa e inaspettata.
“Non sento il bisogno di verificare che ho lavorato bene per ciò che concerne il congresso. Pur ringraziandovi per la proposta, domani sarà il mio ultimo giorno. Non ho né intenzione di lavorare alle condizioni che voi, giovane azienda recentemente affacciatasi nel mondo del lavoro, mi proponete; né quella di lavorare gratuitamente ad un convegno solo perché non sapete da dove cominciare”.
Detto ciò, mi parve di scorgere tutti i miei folletti che, felici per la mia rinascita, cominciarono a saltellare sulla sua scrivania inviandole dei messaggi chiari: gesto dell’ombrello, linguacce e cori da stadio.
Due giorni dopo partecipai al convegno. Pur indossando la più brutta delle divise che un’azienda possa comprare per le hostess, fui felice di riscuotere un bellissimo assegno da seicento euro. I tempi del lavoro in campeggio erano finiti. Il volontariato, pure.
[1] Jonathan, Swift, “Gulliver’s Travel”.